Non è vero che il Novecento italiano è stato il secolo del romanzo, come molti credono - indotti forse a pensarlo dalla quantità di romanzi che oggi vengono stampati, come se la pubblicazione di un romanzo garantisse all'autore un attestato di autorevolezza che altre forme espressive non gli assicurerebbero (anche se, mai come oggi, come ha scritto a ragione, martedì, Davide Brullo sulle pagine de Il Giornale , non è mai stato tanto facile pubblicare un libro di poesie - e di poeti della domenica ce ne sono a centinaia). Ma il romanzo contemporaneo non guarda al nostro passato prossimo, preferisce imitare la produzione contemporanea statunitense, con tutto lo spaesamento che questo fenomeno ha fatto conseguire - perché si imita stilisticamente una traduzione, già una semplificazione del testo, quindi, fino a ignorare la complessità di una sintassi che la lingua inglese dovrebbe invidiarci. Paragonato a quello europeo dello stesso secolo, il nostro romanzo non regge il confronto. Non c'è stato, e non poteva esserci per antropologia, nessun Proust, Mann, Joyce, Kafka, Céline, Musil, Lowry... Questo non significa siano mancate le eccellenze. Il romanzo italiano è un fatto relativamente recente, a differenza di quello russo, inglese e francese che hanno una tradizione del genere più solida. Prima di Manzoni, Verga, De Roberto, in Italia il romanzo era pressoché assente, salvo eccezioni - come la Vita di Alfieri. Ben altra cosa vale per la poesia. Infatti, non c'è Paese in Europa che possa reclamare la nostra stessa ricchezza. E non parlo solo dei consolidati Montale, Ungaretti e Saba. Dico pure dei poeti che sono sempre stati giudicati, spesso a torto, “minori” (quanti ancora studiano, che so?, Sbarbaro o Rebora?). Basti pensare che gli Ottanta, malgrado una certa mitologia tondelliana, sono stati il decennio in cui la poesia ha ricostruito una lingua, utile poi a rivitalizzare lo stesso romanzo. E molti tra i migliori narratori di oggi (penso a Edoardo Albinati, Aurelio Picca, Paolo Del Colle ecc.) proprio con la poesia hanno esordito allora.
E vorrei ricordare due poeti troppo poco studiati: Beppe Salvia e Carlo Betocchi. Il 2015 è stato l'anniversario della morte di Salvia, suicidatosi il 6 aprile del 1985, a soli trentuno anni. Nessuno studioso di poesia lo ha ricordato. Il corpo dell'intera sua opera conta non più di un centinaio di poesie, pubblicate in volume postume. Ho sempre creduto che la grandezza della poesia di Salvia si manifestasse in una manciata di componimenti, che è possibile leggere in Cuore (cieli celesti) , il libro che pubblicò per Rotundo a tre anni dalla morte il critico Arnaldo Colasanti - che con Salvia, Giuseppe Salvatori, Claudio Damiani e Paolo Del Colle, aveva fondato la rivista semiclandestina Braci . Una nuova antologia, curata da Emanuele Trevi per Fandango, venne stampata nel 2006. In quei componimenti si comprende che Salvia ha una chiarità espressiva che appartiene alla visione, ma come se questa gli provenisse interamente da una nudità raggiunta, che lo rende privo di ogni strumento di difesa dal mondo. La sua è una saggezza che si direbbe tutta esperienziale, eppure non priva di erudizione. Il fatto è che la cultura pare gli abbia permesso di liberarsi di essa stessa, una volta forniti gli strumenti necessari per donare agli occhi una lingua. La cultura è come l'avesse convinto ad arrendersi a ciò che vedeva. E quello sguardo nudo è tutto ciò che possiede - sua gioia e suo tormento: «C'è chi, al contrario di me, non dispera,/ che con salute e forza e virtù e buona/ fortuna, si arrivi a morire dopo/ tanti bei giorni, pieni di tantissime/ cose di questo mondo o di un altro mondo;/ o dopo tanti giorni e quella gioia soltanto/ povera dei giorni. Io son felice,/ a questo mondo, solo di questo e spero/ che a me il destino procuri \/ un solo giorno più bello di tutti questi/ miei dolorosi giorni; o di questo mio/ dolore si dimentichi per un solo/ giorno".
Salvia ha certamente guardato alla poesia di Betocchi, fosse soltanto per il francescanesimo di quest'ultimo, caratteristica che pure ha contribuito a renderlo il più grande poeta cristiano del secolo scorso. Ma qual è stata la sorte editoriale di Carlo Betocchi? Oggi sarebbe impossibile acquistare le sue poesie. Eppure ebbe due importanti edizioni integrali. La prima da Mondadori nel 1984, con un'acutissima introduzione di Luigi Baldacci, la seconda da Garzanti nel 1996 (finita fuori catalogo), introdotta da Raboni. Ci si augura che nel 2016, con il trentennale della sua morte, Garzanti rimetta in commercio Tutte le poesie. Betocchi visse sempre la poesia, ogni poesia che scriveva - dalla sua prima raccolta Realtà vince il sogno (1932), a L'estate di San Martino (1961) e Un passo, un altro passo (1967) -, come fosse l'accadimento del tempo, la nascita non solo sua, ma di tutte le cose, del soggetto insieme e in relazione alle cose.
L'estate di San Martino è un libro di piena luce. È l'abbandono di un poeta a ogni cosa del creato: una pura gioia. Una poesia che, essendo un tutto luce, annulla la possibilità stessa della poesia a favore di un lirismo estatico, prima ancora che estetico. Il fatto di vivere l'estasi delle cose nascenti se da una parte produce entusiasmo, dall'altro toglie all'espressione il suo contrario: l'attrito, la tensione in cui la parola assume il significato di uno strappo. In Un passo, un altro passo invece, la luce è ormai raccolta, custodita, è ciò che illumina il dolore del mondo, restituendogli un significato, «E so quanto la vita sia discorde/ con se stessa \/ La guardo e ne raccolgo la figura,/ le credo e non le credo, anche il dolore/ ha due volti, anche l'amore \». È la santità sempre infantile e umilissima di Betocchi che commuove.
Ma c'è una frase, in una prosa contenuta ne L'estate e dedicata all'amico Ottone Rosai, che sintetizza bene la sua poetica: «Ho conservato, di lui, la povertà rigorosa con cui nasce la poesia». Povertà-rigore-nascita. Non sono parole casuali, l'una la causa dell'altra: una poetica che è già una forma di vita.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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