da Pordenone
Se c'è in giro un esemplare di intellettuale che prende posizione, quello è Alain Finkielkraut. Il filosofo francese, figlio di un artigiano ebreo polacco deportato ad Auschwitz, studioso di Emanuel Levinas e Hannah Arendt, è uno che non la manda a dire. Molte sue posizioni contro la risacca del politically correct, contro l'ideologia del multiculturalismo, contro la faccia ambigua di un postmoderno che si presenta carico tanto di lustrini pop quanto di sensi di colpa, hanno fatto discutere. Il Giornale lo ha incontrato al festival letterario Pordenonelegge, dove oggi alle 12 presenterà il suo ultimo libro, Un cuore intelligente (Adelphi, 2011), sorta di biografia d'Occidente attraverso gli scrittori prediletti, da Milan Kundera a Vasilij Grossman. «Il nostro mondo è saturo di semplicismo, e di schemi binari, sempre più refrattario alla sfumatura. Penso che il ruolo della letteratura, sia reintrodurre le nuances nel mondo». Il che non impedisce a Finkelkraut di pronunciarsi in modo deciso su alcuni temi d'attualità stretta e dura.
Che ne pensa delle rivolte nel mondo islamico contro il film L'innocenza dei musulmani?
«Penso che queste rivolte siano, in quanto tali, rivoltanti. È un film nullo, grottesco, diffuso solo su internet, e visto da relativamente poche persone. Realizzato probabilmente da un egiziano copto. Non si capisce quale legittimità abbiano le rivolte in Tunisia, Libia, Pakistan».
C'è anche lo stato di tensione, in Francia, per le vignette del settimanale Charlie Hebdo...
«Quel giornale satirico prende in giro tutte le religioni, è il suo tratto distintivo. Tipico della tradizione francese, da Voltaire in poi. Non sta certo ad afghani, tunisini, egiziani, determinare in che modo devono vivere i francesi. Manifestino contro Assad e il massacro siriano, piuttosto».
Ma intanto qualche giorno fa si è parlato di misure anti-blasfemia nella carta dei diritti umani dell'Onu...
«Sarebbe una disposizione inaccettabile nei Paesi occidentali. La secolarizzazione è avvenuta precisamente contro la criminalizzazione della blasfemia».
Pensiamo a ciò che succede con la religione cristiana, però. Tra film (uno per tutti, il recentissimo Paradise Faith di Ulrich Seidl, dove una donna ha rapporti sessuali con un crocifisso), l'arte contemporanea, le pop culture, la dissacrazione sembra diventata una parodia della libertà, fatta di noia.
«Vero, è un atteggiamento infantile, puerile. Non c'è nessun merito oggi nell'attaccare valori stanchi, moribondi. Le chiese non hanno il vento in poppa, non esercitano il vero potere. Ma non per questo dobbiamo riesumare il peccato di blasfemia. Rischiamo di sottometterci a una forza più preoccupante della chiesa: l'islam».
In passato ha scritto che a 40 anni dal '68, ormai è il caso non più di contestare, ma di ristabilire l'autorità.
«Ci sono esperienze acquisite dal '68 che sono ormai dei punti fermi e su cui non bisogna più tornare. A esempio la rivoluzione democratica di cui parlava Tocqueville, il progresso nell'uguaglianza. Ma oggi siamo portati a chiederci se non occorra porre dei limiti alla rivoluzione democratica».
Per esempio in che campo?
«In quello della famiglia, o ancora di più in quello della scuola. La scuola ha il dovere di essere antidemocratica, dissimmetrica: l'autorità dell'insegnante non deve essere in discussione. C'è bisogno di ripristinarla. Nel '68 abbiamo puntato molto sulla spontaneità. Ma a volte la spontaneità diventa brutale».
La sua posizione rispetto al caso di Richard Millet, l'editor che è stato escluso dal comitato di lettura di Gallimard perché ha pubblicato un «elogio letterario» di Anders Breivik, il massacratore di Utoya?
«Guardi, il titolo di quel saggio è terrificante. Davvero uno scandalo non necessario. Breivik è un personaggio abominevole a cui non bisogna associare il alcun modo il termine elogio. Non sono d'accordo con Millet. Ma non avrei mai firmato una petizione contro di lui, come hanno fatto altri intellettuali».
Perché?
«Nella petizione c'è scritto: nella banlieue si legge il Corano, eppure lì l'integrazione funziona. Non è vero. In Francia l'integrazione è in crisi, le violenze sono quotidiane. Di fronte a questa situazione gli intellettuali si coprono gli occhi. Reagiscono alla provocazione di Millet con una bugia».
E perché non riusciamo ad affrontare il problema dei rapporti con altri popoli e altre culture?
«Colpa del politicamente corretto.
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