Sulla terrazza del vecchio Hotel Majestic, dove noi inviati di guerra ci riunivamo spesso per riposarci delle spedizioni nella giungla e scambiarci impressioni e notizie, poco o nulla sembra cambiato da quegli ormai lontanissimi anni Sessanta: stesso ambiente «belle époque», stessa orchestra che suona, stesso panorama sul fiume.
In realtà, siamo in un altro mondo. La Saigon di allora, conquistata dai Vietcong nel 1975, è stata ribattezzata Ho Chi Minh City (anche se la maggioranza continua a chiamarla con il vecchio nome) ed è diventata quasi irriconoscibile, ma non nel senso che ci si sarebbe potuto aspettare: i comunisti calati dal Nord dopo avere proditoriamente violato gli accordi di Parigi di tre anni prima e che hanno cercato invano di imprimerle il loro marchio spazzando via la sua borghesia mercantile non sono riusciti nel loro intento. Al contrario, la città, con la sua incredibile fioritura di grattacieli e palazzi moderni, con i suoi cinque milioni (cinque milioni!) di motorini su nove milioni di abitanti, somiglia sempre di più alle grandi metropoli dell'Asia «libera», Singapore, Taipeh, Kuala Lumpur. Tutte le grandi catene alberghiere internazionali vi hanno costruito palazzoni da quattro o cinque stelle. I pur ampi «boulevard», ereditati dal secolo di colonizzazione francese, non bastano più a smaltire il traffico, e se il governo non avesse imposto una dogana del 100% sulla importazione delle automobili, centinaia di migliaia di saigonesi sarebbero già passati dalle due alle quattro ruote e la città sarebbe alla paralisi.
Della guerra che ha fatto tre milioni di morti (fra cui 54mila soldati statunitensi) tra il 1960 e il 1975 non c'è praticamente più traccia. Per ricordarne le atrocità, e le gravi conseguenze della defogliazione, il governo ha aperto un museo, soprattutto fotografico, ma non ha ecceduto nella propaganda antiamericana. I sempre più numerosi turisti vengono anche portati a Cu Chi, a vedere la città sotterranea con chilometri di cunicoli che i guerriglieri rossi avevano scavato per nascondersi tra una incursione e l'altra. Ma le relazioni diplomatiche con Washington sono state ristabilite fin dal 1995, Clinton in persona è venuto in visita ufficiale nel 2000, l'ambasciata americana che una volta era il principale centro del potere è stata ristrutturata e trasformata in consolato e, per coronare il processo di rappacificazione, il mese scorso è arrivato anche un McDonald's. Migliaia di «boat people», i vietnamiti fuggiti dalle persecuzioni dell'immediato dopoguerra (tragicamente famosi i «campi di rieducazione») e accolti in Occidente, hanno finito con il tornare in patria riprendendo spesso le loro vecchie attività. Una delle più prospere è senza dubbio il turismo, europeo, asiatico, americano, che ha connotati abbastanza singolari: in un Paese in teoria ateo i luoghi più visitati sono le pagode buddiste e taoiste, le chiese cattoliche e i mausolei degli antichi imperatori, compresi quelli che dalla metà dell'Ottocento erano ridotti a fantocci dei francesi.
Per chi, come me, ritorna a Saigon dopo quasi quarant'anni, e per la prima volta ha la possibilità di visitare anche Hanoi, l'impressione prevalente è che il Nord abbia vinto la guerra, ma abbia perso la pace. Intendiamoci, il Vietnam unificato non è un Paese democratico come la Malaysia o la Corea del Sud: il partito comunista detiene l'assoluto controllo degli affari di governo, la libertà di stampa non esiste, le imprese statali hanno ancora un ruolo dominante. Ma perfino nel Nord, dove domina ancora il culto di Ho Chi Minh, si sono aperte le porte agli investimenti stranieri e, nel campo del commercio e della piccola industria, è stata lasciata briglia sciolta all'iniziativa privata. Numerose multinazionali hanno trasferito qui la loro produzione dalla Cina, approfittando dei salari più bassi e della gran voglia di lavorare della gente: lo stabilimento della Samsung alle porte di Hanoi è grande come una città e quello della Canon non gli è di molto da meno. Sotto tanti aspetti, il Paese somiglia proprio alla Cina di dieci anni fa, anche se, con un'economia agricola ancora dominante e basata su un riso di modesta qualità, il tasso di sviluppo annuo non ha mai superato il 7% e attualmente è sceso sotto il 5. I poveri sono passati dal 59% della popolazione nel 1993 al 18% di oggi, e anche nelle campagne non si ha l'impressione di un popolo che soffre la fame.
Mi sarebbe piaciuto tornare sui luoghi della guerra dove avevo trascorso tante settimane: la cosiddetta Zona demilitarizzata che segnava il confine tra Nord e Sud e dove ho partecipato a scontri cruenti tra i marines americani e i soldati nordisti; il campo trincerato di Khesan, ai confini con il Laos, da cui gli americani speravano di controllare il famoso «sentiero di Ho Chi Minh» per cui passavano i rifornimenti destinati ai guerriglieri del Sud e dove finirono invece assediati dalle truppe di Giap; la base aerea di Bien Hoa, da cui partivano gli F-16 americani a caccia dei guerriglieri nascosti nella giungla. Mi sono dovuto accontentare del delta del Mekong, di una Danang completamente cambiata da centinaia di costruzioni moderne che hanno sostituito le vecchie casupole e di Huè, l'antica capitale imperiale che fu teatro di una feroce battaglia casa per casa, durata 45 giorni, durante l'offensiva del Tet del febbraio '68. La città, pigramente adagiata sul Fiume dei Profumi, non reca quasi più traccia dei combattimenti, ma la cosiddetta Città proibita, residenza degli ultimi sovrani in cui i nordvietnamiti si asserragliarono prima di essere ricacciati al di là della vicina frontiera, è stata restaurata solo a metà. Dietro i palazzi rimessi perfettamente a nuovo si intravvedono ancora numerosi edifici sventrati dalle cannonate e in fase di riparazione: ma, nonostante il valore propagandistico che potrebbero avere, le guide si guardano dal farle vedere.
Con 4mila dollari scarsi di reddito pro capite, il Vietnam è ancora lontano dal raggiungere lo standard di vita dei Paesi vicini risparmiati dalla guerra, ma tutto fa ritenere che presto colmerà il ritardo.
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