nostro inviato a Firenze
Nell’ultima manciata di minuti, dopo quasi un’ora e mezza di replica a chiusura del congresso, Piero Fassino decolla. Raccoglie anche lui lacrime e ovazioni dal suo partito, che chiude bottega nella speranza di costruire «una casa più grande e più bella», e avverte a muso duro: rimettete nel cassetto quei «necrologi» politici che mi avete scritto anzitempo, perché in campo ci sono anche io.
Lo dice rivolto ai giornalisti presenti, ma i suoi chiosano subito che il segretario «parla a nuora perché suocera intenda», e la suocera di Fassino si chiama Massimo D'Alema: «Se posso dare un consiglio alla stampa: non inseguite fantasmi, non tirate fuori dal cassetto quei coccodrilli scritti in anticipo, perché la storia di un partito e di chi ne fa parte è più grande di quello che viene rappresentato. Non sono scioccamente moralista: ciascuno di noi fa politica perché ci crede, per passione, anche perché vuole dare una mano a quelli che vengono dopo. Ma ciascuno ci mette anche le sue aspirazioni e le sue ambizioni». Se dunque qualcuno, suocera o nuora che sia, pensa che la parabola del segretario che ha rimesso in piedi il partito e lo ha portato al traguardo del Pd si concluda qui, e che il dopo - leadership e premiership incluse - sia affar d'altri, ha capito male: Fassino vuole avere voce in capitolo. Anche se, naturalmente, «veniamo da una buona scuola, nella quale siamo stati educati a misurare le nostre ambizioni con l'interesse generale e con gli obiettivi che si intendono raggiungere». E dunque sarà chi ha le migliori carte per vincere a spuntare la nomination finale. Ma intanto ai già affollatissimi blocchi di partenza (e alla nutrita pattuglia di candidati ds andrà aggiunta quella della Margherita) c'è anche lui, a buon diritto. Anche perché i posti in palio vanno ancora definiti: certo l’ipotesi più gettonata, e pubblicamente sancita da Prodi e da D’Alema, è che leader del Pd e candidato premier debbano coincidere, ma una possibilità che non sia così esiste, e Fassino è uno di coloro che la coltivano.
Era un discorso difficile per lui quello che ha chiuso le ultime assise della sua Quercia, doveva vedersela con l’applausometro un po’ nevrotico di un congresso privo di vero pathos, che aveva incoronato tanto le affabulazioni veltroniane che il neo-sentimentalismo dalemiano, che aveva fatto trionfare il caldo pragmatismo allergico alla melassa buonista di Pierluigi Bersani (un altro candidato che non sgomita troppo ma ha molte carte da giocarsi, compresa un occhio di riguardo da parte di Prodi) ma anche, ieri mattina, la carica di femminilità emotiva ma energica di Anna Finocchiaro. Sull’intervento della capogruppo dell’Ulivo c’era stato anche un sotterraneo braccio di ferro, con i dalemiani che spingevano per farla parlare subito prima del segretario, e lui che resisteva e l'ha spuntata. Fassino si era saggiamente premunito, e ieri davanti al MandelaForum di Firenze erano parcheggiati molti pullman di iscritti accorsi a sostenere il proprio leader. È partito in salita, col suo consueto fare ragionante e pedagogico da «buona scuola» ex comunista, senza cercare applausi, rispondendo punto per punto a obiezioni e critiche, rispiegando daccapo perché e per come il partito democratico tocca farlo ed è una gran buona idea, rassicurando sulla futura convivenza con i post-dc della Margherita, sul fatto che certo i Dl non vogliono entrare nel Pse, ma sono pronti a stare «insieme al Pse» in Europa. A Mussi manda «un grande saluto», assicurando che proverà a costruire un Pd «nel quale anche chi oggi non vuol venire, venga domani». Ringrazia D'Alema che rinuncia alla presidenza ma promette di stargli a fianco («Nel tempo libero», precisa il ministro degli esteri). Invoca un «gruppo dirigente coeso e solidale», sottolinea che «non siamo più il partito di sei anni fa», quello alla canna del gas che lui ha ereditato nel 2001. Scuote la testa: «Anche stavolta sono stato troppo lungo», e la platea si intenerisce e acclama il suo facondo segretario. Alla fine piange, e prende applausi scroscianti.
Intanto dietro le quinte si sancisce la tregua tra fassiniani e dalemiani, con l'accordo sui 350 nomi del Comitato nazionale che preserva sostanzialmente gli equilibri. Niente sanguinosa resa dei conti promessa dai secondi ai primi: D’Alema vuole riguadagnare controllo nell'apparato del partito, ben sapendo che sarà una carta fondamentale nella gara per la leadership, ma Fassino non molla il volante della macchina.
Poi il congresso approva il «dispositivo comune» con la Margherita, quello che lancia per ottobre le elezioni dell’assemblea costituente del Pd (e sul come eleggerla si aprirà un’altra bella lotta), sancendo che «all’atto di nascita del Partito democratico verrà conclusa l’attività autonoma dei ds», e si torna tutti a casa.
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