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Debiti e proposte indecenti

P er una volta, bisognerebbe chiedersi molto semplicemente: ma perché il presidente del Genoa, Enrico Preziosi, che pure non è un dilettante allo sbaraglio, a pochi metri dallo striscione della serie A, commette una serie di «atti osceni in luogo pubblico» mettendo in crisi la promozione del suoi club? La prima risposta, diciamo raffinata, è la seguente: perché è consapevole che la sua squadra è arrivata alla fine del torneo senza più benzina nelle gambe, spaventato dall’idea dello spareggio. È una buona idea ma non basta. La risposta più convincente è un’altra: perché di questi tempi, tra restare ancora un anno in B, col rischio di non incassare neanche la rata della mutualità messa in discussione dalla rivolta dei dellavalliani, e salire in A la differenza è enorme: è come riscuotere una fortuna oppure dichiarare bancarotta. La proposta «indecente» fatta al Piacenza qualche settimana prima, la valigetta consegnata al segretario del Venezia e la telefonata effettuata all’intervallo di Genoa-Venezia («ma siete matti?, avete segnato») sono i comportamenti di una persona in preda al panico più che di un astuto dirigente che vuole aggiustare partite.
Per una volta bisognerebbe anche chiedersi: come mai un volpone del calibro di Carletto Mazzone è finito nel tritarcarne della retrocessione dopo essere stato salvo, anzi ai bordi della zona Uefa, per molti mesi col suo Bologna? La risposta più gettonata è la seguente: anche Omero, qualche volta, sonnecchia. No, non è così. È accaduto anche dell’altro. È successo che, all’atto di cementare l’impalcatura della squadra, la società guidata da Gazzoni Frascara ha pensato a non appesantire il bilancio invece che ad alleggerire con qualche felice innesto la cifra tecnica del gruppo. Come si capisce il caso Genoa e il caso Bologna, a modo loro, e con i distinguo del caso, sono espressioni di una identica realtà tenuta insieme da un filo, tutt’altro che sottile, che si chiama crisi economica.
La bolla dei diritti tv è sgonfia da tempo, il calcio-mercato come fonte di guadagno è finito da un paio di anni, e la chiusura delle linee di credito offerte da banche hanno contribuito ad accentuare il disagio. Di conseguenza il calcio italiano ha imboccato la strada che deve portare al risanamento attraverso il sacrificio di molti club. Il fallimento di Venezia e Reggio Emilia sarà presto scandito da altre rese, da altri crac, ma non deve spaventare. Perché il lodo Petrucci consente recuperi in corsa clamorosi (Fiorentina e Napoli insegnano) e perché è cosa buona e giusta liberarsi di dirigenti arrivati nel calcio col dichiarato intento di ricavarne benefici, diretti e indiretti.
I presidenti di professione stanno per sparire. Pieroni, che lo fu di Ancona e Taranto, adesso fa il ds ad Arezzo. C’è da chiedersi: è normale? Gaucci ha ridotto il numero di società controllate: ceduti Samb e Catania, resta al Perugia. Pastorello, patron del Verona, è un caso isolato. C’è una selezione naturale. Ma forse occorre anche un altro segnale in codice. Magari assicurando un diverso e opposto destino a Bologna e Genoa che decreti la priorità del prossimo quinquennio.

Meglio i conti in ordine di una travolgente promozione a suon di gol e di debiti.

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