Dialogo e intransigenza

Intransigenza contro faccia tosta. Un binomio per definire l’ultima svolta nel dialogo fra Stati Uniti e Iran. Con una coincidenza singolare proprio di ora oltre che di giorno. Parla Condoleezza Rice, in viaggio per l’Australia: l’Iran è «la banca centrale del terrorismo internazionale». Parla Ali Larijani, segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale di Teheran e propone una trattativa diretta con gli Stati Uniti. Un «canale di dialogo». Per trattare sul riarmo nucleare? No. Per definire la politica iraniana nei confronti del terrorismo internazionale? Neppure. Quello che Teheran propone a Washington è un dialogo per «risolvere i problemi dell’Irak». Dunque un accusato davanti a un foro internazionale si propone come partner del suo accusatore nella gestione degli affari di un Paese terzo. E il bello è che Washington non risponde mandandoli al diavolo. In linea di principio, anzi, accetta, anche se la Casa Bianca ha immediatamente precisato che il tema del dialogo dovrà essere «molto limitato e preciso», vale a dire non mescolandolo con la questione nucleare.
La replica può sorprendere quasi quanto la proposta; se non fosse che del tutto sorprendente essa non è e che quando due Paesi da un lato pencolano sull’orlo della guerra e dall’altro accettano di discutere, nessuno si può attendere che parlino unicamente d’altro. I motivi di Teheran sono abbastanza trasparenti: dare una prova di buona volontà che «calmi» gli americani e guadagnare così tempo per portare avanti, cocciutamente come oggi, quei progetti atomici che quasi tutto il mondo considera pericolosi. Da parte americana? La trama non è altrettanto trasparente, ma egualmente decifrabile: da quando Washington ha dovuto convincersi che l’abbattimento del regime di Saddam Hussein non conduce affatto all’instaurazione della democrazia a Bagdad bensì a una lotta fra tribù a delimitazione etnico-religiosa, molto è finito col dipendere dall’atteggiamento degli sciiti che in Irak sono la maggioranza della popolazione e che sono uniti all’America nel risentimento contro il dittatore deposto ma altrettanto e più profondamente legati all’Iran dalla comune matrice religiosa. Nei fatti il nuovo esercito iracheno «democratico» è sempre più infiltrato, com’era inevitabile e dunque prevedibile, dalle milizie sciite, unite alle forze Usa solo dalla comune avversione nei confronti dei sunniti.
Si profila dunque, almeno a breve termine, il pericolo di una diarchia di fatto tra il potere militare a Bagdad (americano) e il potere religioso, iraniano. Una collaborazione che però è gravemente erosa dallo scontro in atto tra Washington e Teheran su altri temi, principalissimo quello nucleare. Su questo sfondo si colloca la pubblicazione del nuovo Rapporto Usa sulla «strategia per la sicurezza nazionale», che rispecchia interamente il punto di vista dei «falchi» neoconservatori, rivendicando come punto centrale il diritto dell’America a condurre guerre preventive in ogni momento e in ogni luogo in cui gli interessi americani possano essere minacciati, nel presente o nel futuro.

Una «dottrina Rumsfeld» ufficializzata; e una smentita implicita alle voci insistenti secondo cui Condoleezza Rice starebbe imprimendo al timone della politica estera Usa una rotta molto diversa da quella preconizzata da uomini, Rumsfeld e il vicepresidente Cheney, di cui si continua a prevedere un calo di influenza presso Bush.

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