Egregio Presidente Zapatero, Le scrivo per denunciarle una grossa violazione dei miei diritti avvenuta durante il congresso del suo partito in corso in questi giorni a Madrid. Ascoltavo le relazioni dei candidati, senza dare fastidio a nessuno: sono un tipo di poche parole. Non vorrei però che pensasse che sono uno che se ne sta con le mani in mano; e questo per due motivi. Primo perché le mie mani sono inchiodate al legno che mi sostiene alla parete. Secondo perché non riesco proprio a stare fermo quando qualcuno dei miei fratelli si trova in difficoltà (e tra questi comprendo Lei e tutti i suoi, anche se tra voi vi chiamate meno familiarmente «compagni»). È nella mia natura: una persona triste mi guarda e si riconosce in me. Anche quelli che non mi considerano degno di troppa importanza, una piccola morsa al cuore ogni tanto l'hanno avuta guardandomi.
Ma cosa pretendo di spiegare a Lei, signor Presidente, che queste cose di certo le sa già. Non per niente anche le vostre associazioni di soccorso, per rappresentare l'aiuto dato ai malati e ai sofferenti usano il mio marchio: una croce rossa, bianca, gialla... Esso fa parte di una cultura, di un mondo che guarda al debole, all'amore verso il prossimo, a un società in cui siamo cresciuti liberi anche se forse non troppo responsabili. Cose che so Lei condivide molto più di me visto che vuole fare amare davvero tutti con tutti, compresi gli uomini con gli uomini.
Torno al punto. Mentre i suoi delegati parlavano uno dei suoi uomini mi si è avvicinato. Io ho abbozzato un sorriso per quanto i miei chiodi me lo permettano. Ma lui mi osservava con rabbia. «Cosa gli avrò fatto?», penso tra me e me. Vedo che ha un sacco nero in mano. Intanto dal palco urlano che è il momento della «forza del cambiamento». Bene. Io spero che anche il mio nuovo amico cambi atteggiamento perché ha davvero gli occhi intrisi di odio. Io me ne intendo di odio. Lo ricordo nelle persone che mi hanno inchiodato a questa croce, duemila anni fa. E lo ricordo per le volte che ho sofferto nel cuore dei miei e nostri fratelli, caro Presidente. Nei campi di sterminio, negli attentati da parte dei separatisti, nelle organizzazioni dei terroristi.
So che sa di cosa sto parlando. E ora vedo quello stesso odio rivolto verso questa mia immagine. Vengo staccato dal muro mentre voi parlate di libertà di religione, di ogni religione sia ben chiaro. Mentre sono portato fuori dal vostro centro congressi sento il mio «rapitore» che parla soddisfatto della modernità e del pluralismo, dei diritti di tutti. Non deve poi essere una cattiva persona. Eppure mi butta in un cassetto della spazzatura. Non so perché. Non so cosa gli ho fatto, signor Presidente: a lui, a Lei, ai suoi.
So che si tratta di incomprensioni e non porto rancore. Perdonare, comprendere, capire e incoraggiare, ci creda caro Fratello, sono la mia specialità. Per questo la saluto e la benedico dal mio modesto cassonetto.
Un povero Cristo.
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