Django e l’incendio che cambiò la storia del jazz

Il ragazzo è gitano, o meglio manouche (una stirpe zingara diffusa in Germania, Francia e Belgio). Vive in un terreno abbandonato a Porte de Choisy, nella Parigi di periferia animata da un popolo di diseredati le cui roulotte disegnano il puzzle di una desolata città ambulante. Da lì «brutale, sordida, commovente esplode una canzone lamentosa». È l’incanto che nasce dal marciume. È la voce di un popolo che si riscatta attraverso la meravigliosa chitarra di Django Reinhardt, Il gigante del jazz gitano, come s’intitola la sua biografia, scritta da François Billard e Alain Antonietto e pubblicata da Arcana. Il gigante della chitarra tout court, della «chitarra dalla voce umana» (come la definiva Cocteau) inimitabile perché imprevedibile e vagabonda come la sua razza e la sua vita.
Sabato prossimo si celebrano i cent’anni della nascita dell’artista che ha cambiato il mondo della musica mentre la vita si accaniva contro di lui. Quel 2 novembre 1928 avrebbe dovuto essere uno dei giorni più belli per il 18enne Django. Era un mago del banjo e finalmente lo aveva ingaggiato una vera orchestra, quella di Jack Hylton. Tornò felice alla sua roulotte, cercando la branda al buio per non disturbare Bella, la moglie incinta; però lei si svegliò, accese una candela che le scappò di mano scatenando un pauroso incendio. «All’alba non restavano che braci incandescenti, ravvivate dal vento glaciale che soffiava in direzione di Orly». Django si salvò, ma la sua gamba destra e soprattutto la mano sinistra erano ridotte davvero male. Rimase un anno e mezzo in ospedale, rifiutò l’amputazione della gamba, ma soprattutto lo preoccupava la mano, semiparalizzata. Gli anziani della tribù piangevano per lui che, dopo una delicata operazione, perse l’anulare e il mignolo. Il mondo perse così uno splendido banjoista (il suo suono fragoroso non era adatto all’ospedale, ed il banjo-chitarra dell’epoca era pesantissimo, spesso con la cassa di marmo) ma il fratello Joseph gli regalò una chitarra, su cui inventò un’incredibile tecnica per dare il meglio con la sua mano atrofizzata. Non sapeva leggere né scrivere ma mise insieme i valzer tzigani delle orchestre musette, il cabaret russo con le sue «notti da principi» che andava tanto di moda all’epoca, l’improvvisazione, lo «swing alla francese», i nuovi suoni del Bebop.
Dai primi suoni sincopati che assomigliavano vagamente al jazz («la cui forza di seduzione è paragonabile a quella che una volta gli zingari esercitavano su Liszt o Brahms», scrisse un critico dell’epoca) insieme ai re delle balere Luis Péguri (che mangiava carote crude complete di foglie davanti al pubblico sbalordito) e Fredo Gardoni, alle meraviglie con Stéphane Grappelli e il Quintette du Hot Club de France (consacrato nel 1937 a livello internazionale) fino a capolavori come Djangology passando dal suo Bolero, per Django «il jazz si scriveva sempre al futuro».
Inutile cercare le sue radici, da buon manouche non ne ha e non può averne; si tuffa nel jazz con sangue freddo «come se avesse avuto a disposizione uno strumento a priori più adatto, quale il sassofono o la tromba». La sua anima che non concepiva barriere e il suo entusiasmo convinsero l’indeciso Stéphane Grappelli a portare il violino sulle strade del jazz, come per altre strade fecero «l’italiano» Eddie Lang e Joe Venuti.
Il Quintette con Grappelli segnò il definitivo incontro con il jazz americano, sempre però filtrato dalla sua visione apolide della musica. Quando arrivò in America nel ’46 il mondo della chitarra era stato sconvolto dalle innovazioni di Charlie Christian, che faceva da tramite alla nuova e rivoluzionaria estetica del Bebop. Con la guerra di mezzo non aveva potuto ascoltare Charlie Parker o Dizzy Gillespie e per la prima volta si trovò sbilanciato di fronte ad uno stile diverso. Ma fu un attimo, poi lo elaborò come solo lui sapeva fare, lo esportò a Parigi con i giovani boppers che definì in questo modo: «Mi fanno soffrire questi ragazzini che credono che noi siamo finiti. Un giorno ho iniziato a suonare così rapidamente che non sono riusciti a seguirmi. E ho servito loro pezzi con certe armonie e neppure lì sono riusciti a seguirmi».


Un mito insomma, che come tutti i miti l’agiografia ha definito via via «genio istintivo», «anima primitiva marcata dal sigillo divino», «poteri soprannaturali venuti dal passato», senza pensare che uno zingaro - sì, uno zingaro e pure pittore e gran giocatore d’azzardo - seppur analfabeta e menomato fisicamente, non possa avere la sensibilità per ampliare e valorizzare il proprio patrimonio culturale all’incrocio tra le più diverse tradizioni musicali.

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