Dylan, concerto gratis per ricordare il «papà» italiano

Giovedì a Cosenza show in onore di Mike Porco, l’emigrante nato a Celico che nel 1961 fu il primo a lanciare il cantautore nel suo locale di New York. Diceva di lui: «Sono stato il suo tutore»

Antonio Lodetti

da Milano

Se Bob Dylan è diventato Bob Dylan si deve un po’ anche all’Italia, alla Calabria in particolare, da cui viene Mike Porco, proprietario del mitico Gerde’s Folk City, l’uomo che per primo ha creduto nel giovane, irascibile e squattrinato Bob. Lo raccontano Luigi Michele Perri e Bruno Castagna nel libro Il calabrese che fece grande Bob Dylan, e il profeta onorerà la memoria di Porco - scomparso nel ’92 - giovedì con un concerto gratuito a Cosenza.
Bob Dylan arriva a New York, dopo un lungo peregrinare tra il natio Minnesota, Chicago e il Wisconsin, il 24 gennaio 1961 assieme all’amico Fred Underhill. La città non era quel che si dice accogliente; dieci gradi sotto zero e più di venti centimetri di neve. Bob si rifugia al Greenwich Village, ex feudo degli italiani e ora quartiere degli artisti, dove strimpella qualche canzone al Café Wha? o suona il violino davanti al Folklore Center. Mike Porco emigra in America dalla Calabria nel 1933. È uno che si arrangia; fa il falegname ma soprattutto il barista nei club dove cantano Louis Armstrong e Billie Holiday. Quando si sposta al Village incontra un sacco di personaggi strani come il proprietario del Folklore Center Izzy Young e l’elegante pubblicitario Tony Prendergast. Insieme con loro Porco, già proprietario di un bar e di una «spaghetti house», apre il primo club interamente dedicato al folk: viene ribattezzato Fifth Peg, ma tutti lo chiamano Gerde’s. Come scrive David Hajdu nel volume Positively 4th Street «Porco era un tipo irrefrenabile con un accento calabrese che alleggeriva o appesantiva come una marinara a seconda della necessità». Young e Prendergast procurano gli artisti, Porco vende cibo e bevande. La società dura poco e Porco prosegue l’avventura. All’inizio non tira su molti soldi, ma il suo club frequentato dal bluesman Reverend Gary Davis e da Peter Paul & Mary, dalle star femminili Carolyn Hester e Judi Collins, dai Weavers e da Tom Paxton, diventa la mecca del folk. Ogni notte c’è la coda davanti al locale, capostipite di una serie di storici club come il Bitter End e il Gaslight («c’era gente che correva alla discarica per recuperare qualche vecchio mobile e aprire un folk club», ricordava Porco).
«Un giorno - racconta Porco in Talkin’ New York - entrò questo giovanotto e chiese di suonare. Tutti mi assicurarono che dovevo assolutamente sentirlo, ma io gli chiesi di provarmi la sua età, perché non dimostrava più di sedici anni. Tornò qualche sera dopo con il suo certificato di nascita o qualcosa del genere. Gli permisi di suonare ma non mi sembrò niente di speciale, nient’altro che l’ennesimo cantante folk. Ma al pubblico piaceva. Gli dissi che gli servivano una tessera del sindacato e una per cabaret e gliele feci ottenere. Fu allora che mi assunsi il ruolo di suo tutore, perché non aveva ancora 21 anni e sosteneva di non avere alcun parente ancora in vita».
Il primo lavoro importante è come spalla di John Lee Hooker, lo stregone del blues. Dylan è emozionatissimo e dopo gli spettacoli passa le notti con Hooker ubriacandosi e apprendendo i segreti della musica del Diavolo. È il partner ideale per le anarchiche improvvisazioni di Hooker. Così si fa un nome e Porco lo lancia ufficialmente l’11 aprile, meno di tre mesi dopo il suo arrivo in città. «Fu la sua prima scrittura importante - ricorda Porco -; gli avevo tagliato i capelli, anche se non sembrava l’avessi fatto e prestato un paio di jeans puliti per l’occasione. Era un ragazzo così conciato».


Anche se è praticamente certo che la carriera di Dylan fu sponsorizzata dal suo primo manager Albert Grossman, che investì qualche centinaio di dollari per il lancio del cantautore al Gerde’s (e per ottenere da Robert Shelton recensioni benevole sul New York Times) Mike Porco rimane il primo amico e mecenate di Dylan, da lui stesso definito «il padre italiano che altrimenti non avrei mai avuto».

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