Con «Dylan» la poesia non muore

Fu quarantacinque anni fa: un ragazzo di vent’anni, figlio del Minnesota, ebreo di radici teutoniche scrisse la sua prima lirica, dedicata al maestro di tutti i globetrotter del folk. Diceva infatti: «Ehi, Woody Guthrie, t’ho scritto una canzone/ su questo strano mondo che verrà/ che sembra ammalato e che ha fame, è stanco e sbrindellato/che sembra moribondo e non è neanche nato». Il ragazzo era Bob Dylan. Colpì il suo precoce piglio profetico, la sua indole biblica e in più la voce: nasale, aspra, rivoluzionaria come quella di Allen Ginsberg nei suoi mille reading, quella apocalittica di Ungaretti, quella furente di Little Richard nel suo far coincidere il paradiso e l’inferno.
Di più: con Dylan nasceva un nuovo miracolo della poesia americana, quella di Whitman e di Poe, e della poesia tout court, quella che da Omero e Dante approda a Rimbaud e a Dylan Thomas, sommando appunto il paradiso e l’inferno nel bifronte profilo dell’animo umano. Come nessun altro artista del Novecento - eccettuati forse Picasso e Miles Davis, cui viene talvolta paragonato - Dylan disegna quest’ambiguità spiazzante, quest’altalena tra dannazione e salvezza: e anche per questo il suo mito non s’acqueta, neppure tra i giovani.
Così non è superfluo questo Dylan, cofanetto in tre cidì uscito ieri, in cui, in una vera autobiografia cantata, il Maestro raduna cinquantuno canzoni da Song to Woody, del ’62, a brani dell’ultimo capolavoro, Modern times, uscito nel 2006 e seguito da un concerto mirabile: che nella sola Milano ha attratto ben ottomila persone, in gran parte ragazzi. A riprova che in questa impoetica civiltà non si spegne il bisogno di poesia: ed ecco Bob Dylan, ancora una volta, candidato al Nobel, lui che tra i suoi ascoltatori ebbe, in una memorabile serata bolognese, Karol Wojtyla, e tra gli estimatori ancora Ginsberg, che con lui firmò alcuni blues deliziosi, e Corso, Burroughs, Sam Shepard suo coautore in Brownsville Girl, e tanti altri maestri della letteratura contemporanea. E che di recente è stato celebrato in un film di Martin Scorsese, No direction home, e in un altro proposto a Venezia, I’m not there, con otto attori a interpretarne la multiforme personalità.
Multiforme come il flusso della sua poesia in musica: ancorata alla tradizione ma avanzatissima nei funambolismi verbali, nello spezzarsi e ricomporsi del fraseggio, nell’intreccio di rabbia, dolcezza, foga tribunizia, elegia, sdegno civile, nonché nella tornitura melodica continuamente frantumata nelle esecuzioni dal vivo.
Questo triplo Dylan ricostruisce dunque l’estrema contraddittorietà, o meglio la sotterranea coerenza che lega le molte, contrastanti anime della vicenda dylaniana. Si va dalla denuncia di Masters of war alla rivendicazione sociale di Blowin’in the wind, dal relativismo pragmatico di The times they are a-changin’ al sarcasmo aguzzo di Maggie’s farm. E dal sociale al personale, dal folk acustico al rock elettrico, dal lirismo contemplativo - I’ll be your baby tonight - all’incubo dantesco di Desolation row, nota da noi per la straordinaria traduzione di De Gregori e De André.

Eppoi, via via, ecco il Dylan più surreale e quello più fattuale, l’aedo risentito di Hurricane e il mistico invasato di Slow train coming. Fino a Love and theft e appunto Modern times («Oltre l’orizzonte i cieli sono azzurri/ e io ho più d’una vita per amarti»), ultime testimonianze d’una poesia che non s’arrende.

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