di Arno Geiger
Quando avevo sei anni, mio nonno smise di riconoscermi. Abitava nella casa sotto la nostra, e, dato che io usavo il suo frutteto come scorciatoia per andare a scuola, ogni tanto mi tirava un pezzo di legno, dicendo che nei suoi campi non avevo niente da cercare. Però a volte gli faceva piacere vedermi, veniva verso di me e mi chiamava Helmut. Ma neanche questo mi diceva qualcosa. Il nonno morì. Dimenticai quegli episodi - finché non ebbe inizio la malattia di mio padre.
Secondo un proverbio russo, nella vita nulla ritorna tranne i nostri errori. E con letà si rafforzano. Poiché mio padre aveva sempre avuto una tendenza allasocialità, ci spiegavamo le sue svagatezze, subentrate poco dopo il pensionamento, con il fatto che cominciasse a perdere interesse per il mondo circostante. Il suo comportamento sembrava coerente col carattere. Quindi per qualche anno continuammo a dargli sui nervi scongiurandolo di sforzarsi.
Oggi in cuor mio mi arrabbio per laccanito perdurare di quellequivoco, perché sgridavamo la persona e ignoravamo la malattia. «Non lasciarti andare così!» dicevamo centinaia di volte, e nostro padre lo sopportava con pazienza e secondo il principio che la cosa più facile sia rassegnarsi per tempo. Non cercava di opporsi alla perdita di memoria, non utilizzava neppure i più semplici espedienti mnemonici, quindi non correva neanche il rischio di rammaricarsi se qualcuno faceva dei nodi ai suoi fazzoletti. Non conduceva mai unostinata guerra di posizione contro il proprio declino mentale, e non cercava neppure di portare il discorso sullargomento, anche se, pensandoci oggi, doveva essersi reso conto della gravità della cosa al più tardi a metà degli anni Novanta. Se avesse detto a uno dei suoi figli, mi dispiace, il mio cervello mi pianta in asso, tutti avrebbero potuto affrontare meglio la situazione. Invece ebbe inizio un gioco a gatto e topo, con nostro padre come topo, noi come topi e la malattia come gatto.
Quella prima fase molto snervante, caratterizzata da insicurezza e disorientamento, è passata, e anche se ci ripenso ancora malvolentieri, adesso capisco che cè una differenza tra il rinunciare perché non si vuole più combattere e il rinunciare perché si sa di essere sconfitti. Nostro padre dette per scontato di essere sconfitto. Giunto al periodo della sua vita in cui veniva meno la capacità mentale, puntò su quellautocontrollo che, in mancanza di farmaci efficaci, anche per i parenti rappresenta una possibilità praticabile di relazionarsi con la difficoltà di questa malattia.
Milan Kundera scrive: «La sola cosa che ci resta di fronte allinevitabile sconfitta che chiamiamo vita è cercare di comprenderla».
Immagino più o meno così la demenza della fase intermedia in cui si trova attualmente mio padre: come essere strappati al sonno, non si sa dove si è, le cose girano intorno, paesi, anni, persone. Si cerca di orientarsi, ma non ci si riesce. Tutto continua a girare intorno, morti, vivi, ricordi, allucinazioni oniriche, frammenti di frasi che non dicono niente - e questa condizione dura per tutta la giornata.
Quando sono a casa, cosa che non avviene spesso dato che possiamo distribuire il peso dellassistenza su più spalle, sveglio mio padre verso le nove. Lo trovo sdraiato sotto le coperte, molto confuso, ma è abbastanza abituato a veder entrare in camera persone che non riconosce, quindi non si lamenta.
«Non vuoi alzarti?» gli chiedo gentilmente. E, per diffondere un po di ottimismo, aggiungo: «Che bella vita abbiamo».
Lui si tira su, scettico: «Tu, forse», dice.
Gli porgo i calzini, lui li osserva per un attimo alzando le sopracciglia, poi dice: «Dovè il terzo?».
Lo aiuto a vestirsi. Infine lo guido giù in cucina.
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