Economia

E sui bond, Consob striglia gli istituti

Tra una manciata di giorni a Roma si conoscerà il destino del protagonista indiscusso di questo dramma (con aspetti oggettivamente anche di farsa) chiamato Parmalat: il 2 febbraio la Cassazione deciderà se mandare Calisto Tanzi in galera a iniziare a smaltire un po’ della montagna di anni di carcere accumulati nei processi. Ma intanto, a Milano, si avvia a compimento il processo che della piece racconta l’altra faccia: non gli imbrogli grossolani organizzati a Collecchio da Tanzi e dai suoi fidi, taroccando lettere di credito con lo scanner, bensì il ruolo delle grandi banche, dei colossi della finanza planetaria che intorno alla azienda italiana organizzarono il valzer della finanza creativa. Quando già il gruppo di Collecchio era in stato pietoso, bond per miliardi vennero venduti in tutto il pianeta.
Ieri, al termine della requisitoria a tre voci della Procura milanese, tocca al pm Eugenio Fusco presentare il conto di quelle bugie alle quattro banche straniere rimaste sul banco degli imputati: Citibank, Morgan Stanley, Deutsche Bank e Bank of America. É un conto pesante. Fusco ha sul banco la legge 231, quella che stabilisce le pene per le colpe delle persone giuridiche: pene che la legge affida ad un calcolo complesso, a ogni reato corrisponde un tot di «quote», ed ogni quota ha un valore in quattrini. Ma anche forzando al massimo il calcolo, per tenere conto della gravità dei fatti e della stazza delle società imputate, la pena chiesta dalla Procura è di novecentomila euro per ciascuna banca: sanzione quasi simbolica, per colossi simili. La stangata arriva invece con le richieste di confisca dei beni, destinate a recuperare il corpo del reato. Nell’aula del processo cominciano a volare cifre con tanti zeri: 5,9 milioni di euro per Morgan Stanley, 14 milioni di euro per Deutsche, 30,7 milioni per Bank of America, 70 milioni per Citibank. La somma è di oltre 120 milioni. Un record, verosimilmente.
Le banche sapevano: da questa convinzione, sostenuta da Eugenio Fusco e dai suoi colleghi (Carlo Nocerino e il capo del pool, Francesco Greco) durante tutto il processo e nel corso della requisitoria, deriva la richiesta di condanna. Le banche, dicono i tre pm, sapevano che l’azienda di Collecchio, nel momento stesso in cui piazzavano sui mercati i suoi bond, era, finanziariamente parlando, un cadavere in stato di decomposizione, eppure mantenuto artificialmente in vita con l’ossigeno dei derivati. Per questo, oltre alle condanne pecuniarie, viene chiesta la pena detentiva anche per cinque dei sei banchieri sul banco degli imputati: un anno e quattro mesi per Carlo Pagliani (Morgan), Marco Pracca (Deutsche) e Paolo Botta (Citi); un anno per Paolo Basso (Morgan) e Tommaso Zibordi (Deutsche).
Con la requisitoria di ieri, la Procura milanese ha in sostanza concluso il lavoro sul caso Parmalat iniziato nell’autunno del 2003, pochi mesi prima del fragoroso default di Collecchio. Ma il processo non è affatto finito. Di fronte, i tre pm si trovano un pacchetto di mischia di difensori preparati ed assai agguerriti. Già nel corso del dibattimento - come durante il controesame di Stefania Chiaruttini, consulente contabile dell’accusa, da parte del difensore di Citibank Nerio Diodà - si è visto come le quattro banche sotto accusa intendano combattere fino in fondo per evitare una condanna che ritengono ingiusta.

«Citi ribadisce la propria convinzione che le accuse prospettate siano totalmente infondate ed è convinta che la discussione dimostrerà che Citi fu parte offesa della più grave bancarotta fraudolenta della storia italiana», fa sapere ieri l’istituto newyorkese, sul quale pesano le richieste più onerose.

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