Ecco perché Fini è allergico a Berlusconi

Vuole emergere come leader nell’ombra. Cicchitto: "Basta dividerci, dopo il voto ci rinnoveremo"

di Paolo Francia

L’allergia di Gianfranco Fini al Cavaliere ha una data di partenza, febbraio 1996, e con ogni probabilità una di arrivo, aprile-maggio 2010. Quattordici anni, vissuti «pericolosamente» con Silvio Berlusconi sempre in prima linea e il suo amico-alleato sospeso fra un ruolo di inevitabile sudditanza, politica più ancora che nel gradimento dell’elettorato di centrodestra, e l’aspirazione a una leadership comunque difficile se non proprio impossibile. Di qui lo snodarsi di un rapporto in altalena, da un Fini alleato leale in superficie e assai meno nell’animo a un Fini sulle barricate come negli ultimi mesi. Ma alla tempesta seguiva la quiete; e dopo ogni bufera l’uno e l’altro chiudevano l’ombrello. Finora, perché pur nella sostanziale imprevedibilità che caratterizza da anni il mondo della nostra politica, questa volta tira aria di resa dei conti, più per volontà del premier che per iniziativa del presidente della Camera, irresistibilmente condizionato dal dna («vorrei ma non posso») che lo tengono lontano dalle battaglie senza appello, o la vita o la morte.
L’ingratitudine di Fini è stampata in più pagine del carnet di Berlusconi. Nel pensiero del Cavaliere (e non solo) gli deve lo sdoganamento del 1993-94 di una destra sempre a cavallo del 5 per cento e di fatto ininfluente perché tenuta fuori gioco dall’arbitrario schema del cosiddetto «arco costituzionale». La vittoria alle politiche 1994 e l’ingresso di An nell’esecutivo. Il «perdono» per il no al tentativo del governo-Maccanico (sfociato poi nella sconfitta del centrodestra alle politiche 1996), l’infelice alleanza con Mario Segni nell’Asinello, l’assedio di Fini a Tremonti ministro dell’economia dopo la vittoria del 2001. La nomina a ministro degli Esteri, con sacrificio di Franco Frattini, nel 2003. Il coinvolgimento di An nel Pdl. E tant’altro ancora.
Fini contrappone l’appoggio, fino a oggi, a tutte le leggi e i provvedimenti cari a Berlusconi, i tanti passi indietro nelle nomine Rai (fondamentale crocevia politico), l’accettazione di una quota 30 An-70 per cento-Forza Italia nella cencellesca spartizione dei posti del partitone. E qualcos’altro ancora.
Tutta trippa per gatti, perché al di fuori delle contropartite la realtà parla di un evidente primato del premier, nel Paese e nel Pdl, contro il quale Fini può poco. L’ex leader di Alleanza nazionale ebbe in mano una grande carta nel febbraio 1996 allorché un possibile governo Maccanico avrebbe evitato lo scioglimento delle Camere e consentito l’avvio di una fase costituente nella quale il partito degli allora ancora ex fascisti (non «post» come oggi) avrebbe avuto la piena legittimazione, dopo mezzo secolo di isolamento. Berlusconi (come Gianni Letta) a quel governo non era contrario; né lo era Massimo D’Alema, da un anno e mezzo segretario Pds, che in un sol colpo si sarebbe sbarazzato di compagni di squadra scomodi come Romano Prodi e Walter Veltroni. Quella carta Fini la lasciò cadere, puntando a elezioni poi disastrose per il centrodestra sia per le pressioni di Pier Ferdinando Casini (verso il quale è spesso stato in soggezione) sia perché convinto che An, anche in caso di sconfitta, avrebbe preso più voti di Forza Italia. Calcolo sbagliato.
A un passo, in quel quinquennio, da una rovinosa caduta, Fini è poi riuscito a risalire alla grande, come vicepresidente unico del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera. Lo deve sì a se stesso ma molto a Berlusconi. L’esperienza del passato tuttavia sembra non avergli insegnato granché. Come quando ha preso la vicepresidenza del Consiglio, senza in aggiunta un ministero operativo (come aveva fatto Peppino Tatarella nel 1994), con ciò condannandosi a un incarico di visibilità (comunque offuscata dal premier) ma non di sostanza, prima di approdare agli Esteri dopo l’insistita guerra a Tremonti sui temi economici. E come quando ha subìto l’abile mossa di Berlusconi di portarlo alla presidenza di Montecitorio con ciò escludendolo dalla gestione del nuovo Partito della libertà. Gran bel posto, di prestigio a livello internazionale. Ma o si fa il presidente della Camera o si fa il leader politico. Tutte e due le cose, no: anche in questo Fini ha preso esempio da Casini, ma l’Udc non era e non è il Pdl.
E allora? Se vincitore alle regionali, Berlusconi avrà buon gioco a rimettere le cose a posto (nel partito, non proprio in salute organizzativa come le vicende di questi giorni dimostrano). Potrà farlo. Se pareggiante o sconfitto, dovrà farlo. Come fondatore del Pdl (smettiamola con l’ipocrita tesi dei due co-fondatori: il fondatore è uno, lui), ha il diritto e il dovere di farlo.

Fini avrà il diritto e il dovere di scegliere come e con chi stare. Glielo impongono serietà e rispetto per gli elettori che fin qui hanno appoggiato lui e i suoi amici.
Non è più questione soltanto di allergia. Il tempo è spirato. Game over, partita finita.

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