Quest’anno, se il Fondo unico per lo spettacolo non verrà riportato alla soglia psicologica di 400 milioni di euro (e ci sono buone probabilità che rimanga a 258, lo sapremo per certo a fine febbraio), le fondazioni lirico sinfoniche - le maggiori beneficiarie del Fus - si stracceranno le vesti, o almeno così hanno promesso di fare durante le ultime proteste di piazza e di podio.
A marzo verrà pubblicata la consueta dettagliatissima relazione (quasi sempre sulle cinquecento pagine) sull’utilizzo del Fus 2010, ma intanto siamo riusciti ad avere alcune cifre che gettano un po’ di luce sulla vexata quaestio delle Fondazioni: sono il fiore all’occhiello dello spettacolo dell’Italia? Vanno tenute in piedi pur se in perdita, in una sorta di glorioso e gratuito omaggio alla musica, pena il definitivo sfracello culturale del Belpaese? Oppure devono anche loro, come tutti, affrontare il mercato e il tempo presente?
Su 409,7 milioni del Fus 2010 la lirica si è accaparrata il 47,5 per cento. Tra riduzioni per il provvedimento d’urgenza 78/2010 e accantonamenti, la cifra si assesta a 190 milioni di euro. Il dato è costante: dal 2002 al 2007 la media è stata 47,8 per cento, nel 2008 la percentuale era sul 47,2 per cento e nel 2009 sul 49,8. Mezzo Fus, insomma, per 14 fondazioni, dalla Scala di Milano (che l’anno scorso ha preso 26,7 milioni) a San Carlo di Napoli (13,5 milioni), dal Comunale di Bologna (12) al Verdi di Trieste (11), dal Lirico di Cagliari (7,9) al Maggio Musicale Fiorentino (15,7). I dipendenti del settore, a tempo indeterminato come da piante organiche approvate, vanno dagli 808 della Scala ai 171 del Petruzzelli di Bari (ultima delle 14 fondazioni, creata nel 2003), e in totale fanno non meno di 5500 stipendi da pagare ogni fine mese. Si tratta di un fabbisogno finanziario (340 milioni di euro nel 2009) non accostabile a quello degli altri segmenti sovvenzionati dal Fus e dotato di rilevanza anche politica: metterlo in discussione significa mandare a casa una fetta di dipendenti, o almeno ricontrattualizzare la loro posizione (o «rendita di posizione», per qualcuno).
Quando a ogni febbraio il ministro in carica per i Beni culturali «spacchetta» il Fus, decidendone le collocazioni, non può non tenerne conto. Per non parlare dei lavoratori a tempo determinato: la Scala da sola ne ha 140. Azzardiamo un’ipotesi: se il Fus 2011 rimarrà a 258 milioni, il ministro Bondi potrebbe essere costretto a darne comunque 190 alle fondazioni, penalizzando cinema, musica, teatri di prosa, danza e circo, giusto per soddisfare i dipendenti fissi della lirica.
Il loro contratto nazionale di lavoro, di fatto, è fermo dal 2003, ma la struttura della loro busta paga è piuttosto interessante: una buona fetta viene contrattata a livello «locale». In sostanza, oltre lo stipendio fisso, c’è un’indennità di produttività che dovrebbe remunerare quello che i lavoratori si impegnano a fare di più o in modo diverso, assicurando alla fondazione una maggiore «attitudine» a produrre spettacoli di ogni tipo (per esempio anche, ma non solo, quelli che servono a fare cassa). Di questo strumento c’è stata un’adozione a dir poco patologica. Non sempre queste erogazioni di denaro hanno garantito maggior produttività e in certi casi il contratto arrivava fino al 40 per cento della busta paga di base, facendo lievitare il costo del lavoro.
Quando nel 1996 gli enti lirico sinfonici pubblici furono trasformati - da Walter Veltroni - in Fondazioni, nella speranza di attirare capitali privati (cosa che solo i maggiori di essi, come la Scala o l’Accademia di Santa Cecilia, sono stati capaci di fare), non si fu in grado o non si volle prevedere che questo avrebbe portato a una maggiore libertà nella gestione del personale, con i risultati disastrosi che vediamo adesso. La riforma del 2010 ha cercato di spezzare la logica surreale dei contratti integrativi, ma il loro taglio netto (previsto nella prima stesura) è stato smussato e modificato fino a perdere efficacia. E così dalla fine dell’anno scorso l’Aran (l’Agenzia per la rappresentanza negoziale per le pubbliche amministrazioni) insieme a una delegazione dei sovrintendenti degli enti lirici sta contrattando una razionalizzazione del Contratto nazionale di lavoro dei dipendenti: ma siamo ancora alle schermaglie iniziali.
È chiaro che ad essa si preferiscano scioperi e richieste di aumento del Fus, perché è più facile sventolare la morte della cultura che piazzarsi sul libero mercato aumentando, per esempio, il numero di recitativi per anno (la Scala ne ha più di 105, contro una media nazionale di 63 nel 2009, ma ricordiamo che a Londra il Covent Garden è aperto tutte le sere) o virando verso programmazioni più accorte, capaci di generare un massiccio sbigliettamento. Oggi, questo accade in due casi soltanto: la Scala (che complessivamente nel 2009 ha ricevuto dallo Stato 33,3 milioni di euro e ne ha ricavati 49 da vendite e prestazioni) e l’Arena di Verona (ricevuti 16,6, ricavati 23,5). Ma il quadro completo del settore, purtroppo, è che le 14 fondazioni hanno ricevuto nello stesso anno un totale (tra Fus e altri contributi) di 240,3 milioni di euro e hanno generato solo 127,7 milioni di ricavi.
Eppure qualche esempio in positivo, o segnale di cambiamento che dir si voglia, lo si può scorgere: è da poco che il Carlo Felice di Genova - che da una quindicina di anni era gravato da un fondo pensioni integrativo costosissimo - ha ottenuto la cassa integrazione in deroga, primo ente lirico in assoluto a ottenere simile provvedimento. Il Massimo di Palermo, che sino al 2004 ha avuto risultati di esercizio negativi, si è rimesso in pari negli ultimi anni, realizzando nel 2009 addirittura un utile di 1,9 milioni di euro e con un’ottima attività artistica, a detta dei critici.
La crisi, insomma, sta innestando un circolo virtuoso che ha richiamato all’ordine alcuni amministratori. Ma non altri: per le loro Fondazioni, infatti, la crisi è strutturale e non momentanea. Sono loro i più spaventati dalla riduzione del Fus. (2 continua)- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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