Arriva la dieta in banca

Gli istituti di credito criticano le norme varate da Monti per ridurre i costi delle commissioni e offrire più vantaggi alla clientela, ma la regola che fa più male è il salasso di circa 9 miliardi operato con il trasferimento delle risorse dagli enti locali alla tesoreria centrale

Arriva la dieta in banca

Criticità. È questa la parola che compare con maggiore frequenza nel documento di analisi sulle liberalizzazioni consegnato dall’Abi al Senato i primi di febbraio. Dopo i «regali» contenuti nella manovra correttiva di fine anno (tra gli altri, la garanzia di Stato sulle obbligazioni, la stretta sul contante e l’obbligo di un conto corrente per il versamento degli assegni previdenziali) molti si aspettavano analoghe cortesie nel decreto liberalizzazioni. Le cose, però, sono andate diversamente. E, malgrado qualcuno abbia denunciato comunque la mancanza di interventi veramente incisivi e robusti a favore dei cittadini in materia bancaria, è difficile sostenere che il governo abbia avuto un particolare occhio di riguardo nei confronti degli istituti di credito. Per evitare fraintendimenti i vertici dell’associazione bancaria hanno subito messo le mani avanti.

 

misure dirigiste «Nel decreto nessun regalo alle banche», hanno ripetuto a gran voce subito dopo l’approvazione del testo sia il presidente Giuseppe Mussari sia il direttore generale Giovanni Sabatini. In effetti, tra le operazioni sul conto di tesoreria degli enti locali, che toglieranno liquidità agli istituti, e le disposizioni in materia di conti correnti e carte di credito, le nuove norme sembrano tutt’altro che generose. Di sicuro, come ha sottolineato lo stesso Sabatini in un’intervista, c’entrano poco con le liberalizzazioni. «Continuo a sorprendermi», ha spiegato, «del fatto che per tutti i settori produttivi liberalizzazione significhi automaticamente rimuovere vincoli, alleggerire norme in modo da favorire il libero gioco della concorrenza. Invece, quando ci si occupa dell’industria bancaria, si fa ricorso a divieti, prezzi amministrati, tetti imposti e quant’altro. L’armamentario non è quello delle liberalizzazioni».

Difficile obiettare. Il settore bancario non è dominato da soggetti monopolisti, né da concessionari pubblici. E gli istituti si contendono il mercato a colpi di offerte e servizi. Semmai il settore ha problemi di trasparenza, di corretta comunicazione alla clientela, nonché di conflitti di interesse e di intrecci banco-industriali.

Tutte questioni su cui l’Antitrust ha più volte puntato il dito. Ma di cui non si occupa il decreto, dentro il quale, in luogo di interventi volti a liberalizzare, troviamo misure dirigiste volte a regolamentare per legge costi e condizioni di alcuni servizi.

 

Il conto di base Il principale articolo dedicato alle banche è il 27, che si intitola Promozione della concorrenza in materia di conto corrente o di conto di pagamento di base. La norma interviene sia sull’offerta di servizi low cost per le fasce sociali più deboli sia, come spiega il servizio studi del Senato, «in materia di regole per la riduzione delle commissioni interbancarie a carico degli esercenti in relazione alle transazioni effettuate mediante carte di pagamento».

In entrambi i casi, le novità riguardano una serie di modifiche all’articolo 12 della manovra correttiva di fine anno. La prima proroga fino al primo giugno 2012, il termine entro il quale l’Abi, Poste italiane, il consorzio Bancomat, le società che gestiscono i circuiti di pagamento e le associazioni delle imprese più rilevanti dovranno mettere in atto la sforbiciata delle commissione interbancarie per i pagamenti elettronici (tra cui i pagamenti di carburante senza costi aggiuntivi sia per l’acquirente sia per il venditore nel caso di transazioni di importo inferiore ai 100 euro), senza più tenere conto del limite di riduzione dell’1,5% previsto nella manovra. Nei sei mesi successivi scatteranno i controlli da parte di Bankitalia, Antitrust, ministero dello Sviluppo e ministero dell’Economia, che dovranno tutti ritenere soddisfacenti le misure previste dalle banche. Per quanto riguarda il conto di base, la norma ribadisce che gli istituti di credito dovranno stipulare una convenzione per definire le caratteristiche di un prodotto senza costi di gestione. In caso di mancata stipula della convenzione (che deve avvenire entro tre mesi dall’entrata in vigore della manovra correttiva, ovvero il 6 marzo) sarà il ministero dell’Economia, sentita la Banca d’Italia, a fissare d’ufficio attraverso un decreto le caratteristiche del conto a zero spese.

tetto alle commissioni Ma la parte che ha più fatto storcere il naso alle banche è un’altra. L’articolo 28, infatti, disciplina, stabilendo un termine massimo di 90 giorni per l’adeguamento di tutti i contratti bancari, anche il regime transitorio successivo all’entrata in vigore dell’articolo 117-bis del decreto legislativo 385/1993 introdotto sempre dalla manovra di fine anno. Si tratta delle norme volute da Mario Monti per definire nel dettaglio la remunerazione spettante a banche e intermediari in rapporto agli affidamenti e agli sconfinamenti. In particolare, la legge stabilisce che in luogo delle attuali commissioni di massimo scoperto la banca possa applicare una commissione onnicomprensiva che non può superare lo 0,5% a trimestre della somma messa a disposizione del cliente.

Inutile dire che per l’Abi «la disposizione desta criticità». Le perplessità, secondo quanto riferito dal direttore generale Sabatini in audizione al Senato, si riferiscono al fatto che la norma «non tiene affatto conto né che la disciplina recata dall’art. 117 bis, recentissimamente introdotto, non può ritenersi del tutto completa fino a quando non saranno emesse le disposizione del Cicr, né che la norma potrebbe subire ulteriori interventi ad opera del Parlamento». Questo, secondo l’associazione guidata da Mussari, significherebbe che le banche potrebbero essere costrette ad un doppio cambiamento in corsa. Il che comporterà, ha spiegato Sabatini, «inutili costi agli intermediari, ma soprattutto una grande confusione tra i clienti che, invece, il legislatore vuole tutelare».

 

Groviglio normativo su polizze e mutui Più articolata e netta è la critica relativa all’antica questione delle polizze legate ai mutui. Sul tema sono intervenuti recentemente sia l’Isvap di Giancarlo Giannini, con la delibera definitiva che vieta agli istituti di credito di essere contemporaneamente intermediari e beneficiari dei contratti di assicurazione sulla vita stipulati contestualmente ai prestiti, sia il governo, che nella manovra correttiva ha inserito la vendita abbinata delle polizze tra le pratiche commerciali scorrette su cui deve vigilare l’Antitrust.

Partono proprio dall’intreccio normativo le obiezioni dell’Abi sull’articolo 28 del decreto liberalizzazioni, secondo cui banche, istituti di credito e intermediari finanziari, se condizionano l’erogazione del mutuo alla stipula di una polizza vita, sono tenuti a sottoporre al cliente almeno due preventivi di due differenti gruppi assicurativi. Per l’associazione bancaria «la disposizione solleva criticità» in rapporto alle altre recenti norme attualmente vigenti. In particolare, «non sono chiari i confini delle tre norme, né la disciplina applicabile nell’ipotesi di una loro operatività contestuale».

Le banche auspicano e chiedono che la materia sia rimandata ad un decreto del ministero dello Sviluppo economico per le modalità di attuazione, ma che nel frattempo nella legge di conversione del decreto si stabilisca il principio che «è escluso da ogni divieto, e anche dalle pratiche commerciali scorrette, il collocamento di polizze assicurative obbligatorie ai sensi di norme di rango primario» (per esempio, per le operazioni di credito garantite dalla cessione del quinto dello stipendio o della pensione) «o secondario e delle polizze connesse ai contratti di mutuo ipotecario che assicurano l’immobile in garanzia contro il rischio danni».

 

accentramento delle tesorerie Se finora la soglia di allarme è rimasta circoscritta alle «criticità», gli effetti delle liberalizzazioni diventano invece «dirompenti» con le disposizioni contenute nell’articolo 35, che apparentemente non riguarda le banche. Il testo, infatti, stabilisce che il cosiddetto sistema di tesoreria unica mista, a cui è sottoposta da diversi anni la maggior parte degli enti pubblici, sia sospeso a partire dall’entrata in vigore del provvedimento e per la durata di due anni. In sostanza, spiega Sabatini nel corso dell’audizione, «si ritorna ad un sistema ante 1998, con accentramento presso le contabilità accese in Banca d’Italia a nome degli enti di tutte le disponibilità degli enti stessi diverse da quelle rivenienti da mutui, prestiti obbligazionari e da altre forme di indebitamento non sostenute da contribuzione statale».

L’obiettivo è quello di fornire risorse allo Stato per sostenere il rifinanziamento del debito pubblico. Stando alle cifre contenute nella relazione tecnica, l’afflusso di soldi presso la tesoreria centrale «si tradurrà in una minore emissione di titoli di Stato, che dovrebbe comportare un risparmio stimato in 320 milioni di euro nel 2012, 150 milioni nel 2013 e 150 milioni nel 2014».

Il problema è che per qualcuno che risparmia c’è qualcuno che paga. E nello specifico a pagare sono proprio gli istituti di credito. Le ingenti risorse degli enti locali erano infatti fino a ora depositate presso le banche, che ora dovranno fare fronte a un ulteriore problema di liquidità oltre alle difficoltà già causate dalla congiuntura economico-finanziaria europea.

 

Unicredit resta a secco Il salasso per gli istituti di credito, stando ai calcoli effettuati dagli esperti del governo, sarà robusto. Con la norma in esame, scrive il servizio studi del Senato, «si prevede l’afflusso presso la tesoreria statale di almeno 8,6 miliardi di euro, quali media delle risorse detenute presso il sistema bancario da regioni, province, comunità montane unioni di comuni, enti del comparto sanità, università e dipartimenti universitari». Somme che da un giorno all’altro (tutta l’operazione dovrà essere conclusa entro la fine di aprile) verranno prelevate dai conti bancari.

A restare a secco saranno moltissime banche, ma alcune più delle altre. In particolare, incasseranno il colpo Unicredit, molto attiva nelle convenzioni con gli enti locali, Mps, Bnl, nonché molte casse di risparmio. Su questo punto le banche hanno poco da obiettare, la norma è chiara, le finalità pure. La stangata non si potrà evitare. Sabatini si è limitato a chiedere una serie di disposizioni aggiuntive per evitare che, nell’arco delle scadenze previste dalla legge, i margini di discrezionalità concessi agli enti locali per trasferire le somme non creino ulteriori aggravi sul mondo bancario.

Di sicuro, ha detto Sabatini, «sottrarre otto o dieci miliardi di liquidità alle banche italiane in questo momento non mi pare esattamente un regalo alle aziende di credito. È un onere pesante in una fase in cui la liquidità è un bene scarsissimo».

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