Neanche il tempo di digerire a fatica l'insoddisfazione per la cautela espressa dalla Federal Reserve sui futuri tagli dei tassi, e i mercati si sono trovati ieri a dover trangugiare un boccone forse ancora più indigesto: altri dazi made in Usa per la Cina, per un controvalore di 300 miliardi di dollari, a partire da settembre.
Così parlò Donald Trump, talmente scontento per i singhiozzanti risultati partoriti dalle ultime trattative a Shangai da fare a pezzi la tregua sottoscritta al G20 di Osaka con il presidente cinese Xi Jinping. Almeno questo è l'alibi fornito dal tycoon, sufficiente per provocare l'irritazione dell'ex Celeste Impero, pronto a replicare ai rivali a stelle e strisce con nuove misure di ritorsione. Non si esclude anche il blocco verso l'America delle esportazioni di terre rare, i minerali impiegati nei settori hi-tech, a cominciare da quello degli smartphone.
Un'escalation delle tensioni commerciali è il timore che da mesi agita le Borse. E la reazione di ieri è la plastica rappresentazione di queste paure, visto che una trade war vera e propria rischierebbe di far deragliare un'economia globale già in fase di rallentamento e costretta, ancora una volta, a dover fare ricorso alle principali banche centrali.
I ribassi che hanno scandito l'ultima seduta delle settimana sono stati così robusti, a partire dall'Asia per effetto dei fusi orari (Tokyo ha ceduto il 2,1%, Shangai l'1,4%), con parziali recuperi nella sessione pomeridiana in Europa forse legati allo scampato pericolo legato all'introduzione di tariffe punitive Usa su merci Ue.
In realtà, nel tardo pomeriggio di ieri, Trump si è limitato ad annunciare un accordo che consentirà agli Usa di esportare più carni nel Vecchio continente. Ciò non ha impedito uno scivolone del 2,27% dello Stoxx Europe 600 soprattutto per effetto delle vendite sui titoli tecnologici, industriali e della moda e che hanno costretto Piazza Affari ad arretrare del 2,41%. Peggio Francoforte, in rosso di quasi il 3%, mentre a un'ora dalla chiusura Wall Street conteneva le perdite attorno all'1%.
Per quanto da manuale visto la posta in gioco, la reazione dei mercati potrebbe già da lunedì prossimo essere riassorbita. Soprattutto se finirà per prevalere la tesi di non pochi analisti secondo cui la mossa di Trump non ha come intento quello di invelenire i rapporti col Dragone, ma di convincere Jerome Powell, capo della Fed, ad agire con più decisione sulle leve del costo del denaro. La banca centrale di Washington ha d'altra parte indicato proprio nel braccio di ferro Usa-Cina uno dei downside che hanno determinato il taglio dei tassi di mercoledì scorso. Inasprendo il fronte commerciale, The Donald crea in questo modo le condizioni per ulteriori interventi di politica monetaria e per spazzare le ultime resistenze sulla necessità di ulteriori allentamenti. L'aumento delle chance di nuovi tagli espressa ieri dall'andamento dei future sui Fed Fund sembra proprio avvalorare questa tesi.
Il gioco è comunque di quelli pericolosi.
La prova sta nei numeri: dall'inizio dell'anno il deficit commerciale statunitense verso la Cina si è ridotto a circa 180 miliardi di dollari rispetto ai 200 miliardi delle stesso periodo del 2018, soprattutto a causa del calo di oltre il 18% delle esportazioni verso il Paese orientale, mentre le importazioni di merci cinesi sono diminuite del 12%.
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