Sempre più giù. Dopo essere scesi lunedì a New York sotto i 50 dollari il barile, i prezzi del Wti hanno incassato ieri una batosta del 5%, scivolando a quota 47,70 dollari, con un immediato effetto di trascinamento vero il basso del Brent (-3,81% a 57,34 dollari). All'origine dell'ulteriore indebolimento delle quotazioni, il fatto che la produzione di Russia e Stati Uniti si è spinta a livelli record, alimentando così i timori di un eccesso di offerta in un momento in cui, a causa del rallentamento dell'economia globale, la domanda potrebbe calare. L'incremento dell'output russo arriva dopo il sofferto accordo con l'Opec, all'inizio di dicembre, per un taglio complessivo di 1,2 milioni di barili al giorno a partire dal 2019 e si va ad aggiungere al record produttivo messo a segno dall'Arabia Saudita lo scorso novembre per venire incontro ai desiderata di Donald Trump.
«Il mondo non vuole vedere, e non ha bisogno, di prezzi petroliferi più alti», aveva twittato il presidente Usa pochi giorni prima della formalizzazione dell'intesa tra l'Opec e i Paesi produttori esterni al Cartello. Gli attuali valori raggiunti dal greggio soddisfano probabilmente il tycoon, che dallo sgonfiamento dei prezzi trae spunto per sottolineare come l'inflazione non sia a un livello tale da giustificare ulteriori rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve, chiamata oggi a decidere. The Donald, tra l'altro, è tornato ancora ieri alla carica: «Spero che la Fed non faccia un altro errore lasciando il mercato meno liquido di quanto non lo sia già. La Fed senta il mercato, non numeri insignificanti».
La caduta dei prezzi petroliferi potrebbe però rivelarsi un boomerang per Trump.
L'Agenzia internazionale dell'energia prevede che la produzione di petrolio negli Stati Uniti crescerà di 1,3 milioni di barili al giorno nel 2019, ma le quotazioni potrebbero avere un impatto significativo su tali proiezioni. Secondo Morgan Stanley, se il barile restasse sotto i 50 dollari la produzione di shale oil dovrebbe iniziare a rallentare.
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