La Cina è pronta a cavalcare le grandi privatizzazioni italiane e, forse, anche ad accettare di mettersi in tasca Bot e Btp come fa da tempo con i Treasury americani, fino al punto di diventare il principale creditore della Casa Bianca. Il segnale politico inviato da Pechino è diventato chiaro ieri quando la Banca centrale cinese, di norma attenta a non farsi «intercettare» nei suoi movimenti, è sbucata oltre la soglia rilevante del 2% sia nel capitale dell'Eni sia in quello dell'Enel, in questo caso al quarto posto dietro le americane BlackRock e State Street. L'ambo fatto della Peoples Bank of China equivale a un impegno complessivo di oltre 2,1 miliardi (di cui 1,36 miliardi per il 2,1% di Eni e 785 milioni per il 2,07% di Enel).
Cifra di tutto rispetto, ma risibile rispetto alle forze finanziarie del Paese asiatico, che è seduto su una liquidità da 2.400 miliardi di dollari. Il dato centrale appare, quindi, non il valore strettamente pecuniario dell'investimento ma quello «strategico», visto che Pechino ha deciso di far sapere al mercato di aver preso posto proprio nelle due principali multinazioni italiane controllate dalla mano pubblica. Una discontinuità importante se si considera che finora la Cina aveva completato operazioni di modesta entità in Italia o era comunque rimasta invisibile agli schermi della Consob. In sostanza, i tesorieri del Dragone sembrano appostarsi per le grandi privatizzazioni italiane, sebbene al momento siano state solo annunciate: a partire da quella dell'Eni guidata dall'ad Paolo Scaroni, dove l'investimento potrebbe essere stato agevolato anche dalla missione asiatica dell'ex ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato per il vecchio governo Letta. Parzialmente diverso, invece, il quadro all'Enel di Fulvio Conti, dove i cinesi erano registrati nel libro soci tra lo 0,8% e l'1% già alla fine del 2012 e hanno poi incrementato la quota in un paio di passi fino al 2% attuale. La «doppietta» Eni-Enel non sembra invece essere collegabile con il rinnovo dei vertici dei due gruppi energetici (entrambi in scadenza) o con cambiamenti nella governance.
La banca centrale cinese è poi alla ricerca di grandi realtà in grado di garantire la redditività (anche in termini di dividendi) dei propri investimenti: ieri Eni ha intanto piazzato sul mercato il 7% della portoghese Galp, di cui manterrà un residuo 9%. Ai cinesi piacerebbero comunque sia Snam sia Terna, senza contare che nelle sale operative si scommette che un altro potenziale target potrebbero essere le Generali.
Lo sbarco a Trieste rappresenterebbe un'ulteriore svolta nei gusti di Pechino che, finora, ha fatto shopping in mezza Europa preferendo le realtà industriali ai gruppi della finanza: la Cina ha le chiavi della svedese Volvo ed è azionista di Peugeot-Citroen, ha puntato sulla danese Bang & Olufsen, è entrata nel capitale dell'aeroporto di Heathrow e in quello della utility portoghese Edp. In Italia aveva invece già messo le mano su Cifa, Krizia e sugli yacht della Ferretti. Senza contare che la stessa Bundesbank si prepara a giocare il ruolo di hub europeo per il commercio dello yuan.
Di certo l'arrivo massiccio in Piazza Affari della prima potenza economica mondiale conferma che l'Italia non è definitivamente più un «pericolo» per gli investitori e corrobora la ritrovata passione per l'Italia degli stranieri. La stessa che sta per portare Alitalia nelle mani degli emiri di Etihad e che ha convinto i maggiori fondi di investimento americani e anglosassoni a prendere posto con forza nelle maggiori banche italiane.
A partire da BlackRock che ha poco completato la tripletta in Intesa Sanpaolo,
Unicredit e Monte dei Paschi facendo da apripista a un percorso che promette di mettere in secondo piano il ruolo delle Fondazioni. Intanto l'Italia ha incassato dalla Cina il via libera all'export di mortadelle e cotechini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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