Le chiacchiere stanno a zero: nella guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina è il momento della verità. Il 15 dicembre conteranno i fatti, non più le parole. E i mercati, sempre più nervosi e con il dito pronto a pigiare sul pulsante delle vendite, lo sanno. Perché domenica prossima possono succedere solo due cose: o Donald Trump decide di rinviare l'entrata in vigore di nuove tariffe punitive del 15% su merci importate dall'ex Impero Celeste per un controvalore di 150-160 miliardi di dollari, oppure scatteranno le immediate ritorsioni cinesi su prodotti Usa pari a 50 miliardi. A quel punto, le possibilità di trovare un'intesa saranno ridotte al lumicino.
Il tempo stringe, ma Pechino mantiene un comportamento ambiguo. Da un lato, vuole eliminare dagli uffici pubblici tutti i computer e i software made in Usa entro il 2021, con grave danno per big a stelle e strisce quali Microsoft, Dell e Hp; dall'altro, ha inviato ieri segnali distensivi mandando in avanscoperta il vice ministro del Commercio Ren Hongbin. «La Cina - ha detto - spera di raggiungere un'intesa il più presto possibile, con condizioni soddisfacenti per entrambe le parti». Una fretta che sembra dettata anche dai pessimi segnali giunti dal fronte delle esportazioni, scese in novembre dell'1,1% e letteralmente crollate (-23%) nei confronti dell'America. Una posizione di debolezza su cui il tycoon potrebbe essere tentato di far leva, assumendosi però il rischio di mandare in sell-off Wall Street e proporre una replica del Natale nero dello scorso anno, quando l'S&P perse alla vigilia 500 punti. Andare avanti imperterrito con misure di rappresaglia contro la Cina che vanno a colpire i prezzi di cellulari e giocattoli proprio nel momento più caldo degli acquisti natalizi, può rivelarsi un boomerang. La Borsa di New York è salita di oltre il 17% da gennaio (-0,3% ieri a un'ora dalla chiusura, mentre Milano ha perso lo 0,97% e l'Europa in media lo 0,24%), ma questo tesoretto può evaporare in fretta in assenza di notizie favorevoli dal fronte della trade war. Proprio perché i mercati, solleticati dai ripetuti annunci di pace ormai vicina, hanno scommesso sull'intesa sino-americana, un irrigidimento del braccio di ferro può far scattare una reazione violenta. Soprattutto se verrà a mancare l'appoggio della Federal Reserve. Ma domani, salvo sorprese clamorose, la banca guidata da Jerome Powell scodellerà un altro nulla di fatto sui tassi confermando di aver completato il processo di riduzione del costo del denaro Prevedibile l'ira di The Donald, che pretende da tempo l'azzeramento del costo del denaro per rendere più competitiva l'economia anche attraverso un deprezzamento del dollaro. Ma l'arma del contenzioso irrisolto col Dragone potrebbe essere anche usata dalla Casa Bianca per piegare la Fed, che in caso di avvitamento dei mercati e di segnali di recessione più evidenti avrebbe qualche difficoltà a mantenere invariata la politica monetaria.
Apparentemente più agevole è il compito che attende giovedì prossimo la presidente della Bce, Chistine Lagarde, chiamata però a chiarire in quale direzione intenda muoversi
l'Eurotower. La Germania, dopo la caduta della produzione industriale, rischia di scivolare in recessione. Con ricadute sull'intera Eurozona pesanti, tali da rendere ancora necessario mantenere tutte le misure di sostegno.
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