Dazi, Usa e Cina tornano a negoziare

Fissato un nuovo vertice a inizio ottobre. Intanto in Germania si ferma l'industria

Dazi, Usa e Cina tornano a negoziare

Ottobre, andiamo. È tempo di negoziare. Ancora impegnati ad accapigliarsi una manciata di giorni fa, Stati Uniti e Cina provano a riannodare i fili del dialogo nel tentativo di mettere la parola fine all'estenuante telenovela commerciale che li vede protagonisti. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto ieri grazie a una telefonata partita da Pechino alla quale Washington ha risposto senza sbattere la cornetta, ma anzi concordando sulla necessità di fissare un incontro all'inizio del mese prossimo, nella capitale Usa, allo scopo di gettare le basi per un possibile accordo. A darne notizia è stato ieri il ministro del Commercio del Dragone, con l'auspicio «che si creino le condizioni favorevoli per un proficuo negoziato fatto di progressi significativi». Gli incontri che si terranno a metà di settembre fra i due vicepresidenti, dovranno servire a creare le condizioni per un'intesa dopo ben 12 round negoziali infruttuosi e inframezzati dalla moltiplicazione di dazi e da scambi di accuse.

A deporre a favore di un happy end, l'uso della locuzione «progressi significativi», mai più utilizzata dallo scorso maggio, quando i colloqui si erano bruscamente interrotti. Wall Street (+1,5% a un'ora dalla chiusura) sembra crederci, ma la cautela è di rigore se solo si considera che appena la scorsa domenica l'America ha applicato ulteriori tariffe punitive sul 15% delle merci importate dal Paese orientale, che Donald Trump non vuole abbassare la guardia su Huawei, considerata ancora una minaccia nazionale, e che Pechino ha annunciato fresche misure di ritorsione tali da colpire perfino il greggio Usa.

Ma la trade war sta diventando una guerra di logoramento per entrambi i fronti. E i danni cominciano a vedersi. La Cina, alle prese con un forte rallentamento economico e con le crescenti grane che arrivano da Hong Kong, non può forse più permettersi di proseguire nel braccio di ferro con i rivali, magari con l'intento di danneggiare la corsa di The Donald per un secondo mandato alla Casa Bianca. Lo stesso tycoon sa bene dei rischi indotti da un prolungamento delle ostilità. Tanto per fare un esempio, quasi il 90% degli indumenti e dei tessuti acquistati dalla Cina sarà soggetto a tasse supplementari. E ciò, inevitabilmente, farà male alle tasche dei consumatori Usa. Il Congressional Budget Office ha previsto che entro il 2020 il reddito medio reale delle famiglie si ridurrà di 580 dollari, mentre JP Morgan ha stimato che l'ultima tornata di dazi aumenterà il costo medio per famiglia di 1.000 dollari l'anno. Un salasso che molti americani potrebbero ricordare al momento di recarsi alle urne. Trump deve far bene i calcoli: a causa del duello commerciale con Pechino, si è già giocato i consensi di una buona fetta dell'elettorato degli Stati rurali del Paese, decisivi per la sua nomina nel 2016. Inoltre, gli obiettivi di una crescita del Pil di almeno il 3% potrebbero essere mancati se la Fed non asseconderà i desiderata del tycoon su un azzeramento dei tassi in tempi rapidi.

Di sicuro, chi fa il tifo per la pace commerciale è la Germania.

Gli ordini all'industria manifatturiera tedesca sono scesi in luglio del 2,7% mensile, facendo suonare l'ennesimo campanello d'allarme per un'economia che, dopo la contrazione dello 0,1% accusata nel secondo trimestre, rischia sempre più di arrivare alla fine di settembre all'appuntamento con la recessione.

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