di Agostino Cesaroni
Negli ultimi mesi economisti e giuristi hanno dibattuto sulla natura e sul ruolo delle fondazioni bancarie; nel merito non vi è chi non chieda modifiche alla Legge Amato, che aveva un doppio evidente scopo: da un lato favorire una sana e corretta gestione del patrimonio delle fondazioni, esaltando il loro ruolo di ammortizzatori e di portatori degli interessi economico-sociali-culturali del territorio. Dall'altro scorporare la banca conferitaria dalla proprietà al fine di assicurare ad essa la migliore competenza nella gestione dell'azienda, anche nell'interesse economico del territorio.
Ma era altrettanto evidente che lo scorporo dell'azienda bancaria avrebbe dovuto rappresentare per le fondazioni l'opportunità di rafforzarsi patrimonialmente. Le fondazioni avrebbero dovuto diversificare gli investimenti e frazionare il rischio di mercato, anche dismettendo in modo significativo la propria partecipazione nella banca partecipata. Si sarebbe dovuto arrivare al modello delle fondazioni che gestiscono le università americane: massima attenzione alla funzione istituzionale e al frazionamento e produttività degli investimenti. Cosa è invece successo?
Le fondazioni hanno certamente svolto il loro ruolo istituzionale, ma tante di loro hanno maldestramente sbagliato nella gestione del patrimonio, depauperando ciò che si era faticosamente costruito in 150 anni di storia. Esse si sono sovrapposte alla azienda bancaria, hanno nominato in cda e nel collegio sindacale della banca persone di esclusivo gradimento, spesso inadatte; ed è stata la stagione dei presidenti-avvocato. Casi d'attualità come Mps o, in scala minore, la Banca delle Marche - nei quali il peso il peso dei consiglieri della banca nominati dalla Fondazione è dominante rispetto a quello dei privati - dimostrano a cosa si è arrivati. In sostanza le fondazioni si sono tenute la gestione strategica ed operativa della banca partecipata, con ciò disattendendo gli scopi della riforma Amato. Il ministero dell'Economia ha spesso invitato le fondazioni a ridurre il peso delle loro partecipazioni nelle aziende bancarie, ma invano; probabilmente la gestione del potere è più forte della intelligente gestione degli affari.
Devo segnalare di essere d'accordo con il presidente dell'Acri Giuseppe Guzzetti e quello uscente della fondazione Carisbo, Fabio Roversi Monaco, sulla bontà ed efficacia della gestione delle fondazioni per quanto riguarda il loro ruolo istituzionale; condivido peraltro il pensiero di Luigi Guiso, professore di Economia allo European University Institute di Firenze che suggerisce di seguire la strada «Ciampi» (affidare le banche ai padroni veri) e segnalo infine il pensiero di Roberto Perotti, ordinario di Economia Politica alla Bocconi che sostiene come la Fondazione Mps «non è vittima ma complice ed istigatrice. Ha sperperato un patrimonio di miliardi ad essa affidati dai cittadini senesi».
Le fondazioni hanno completamente sbagliato, hanno disatteso lo spirito della Riforma Amato; non hanno ascoltato le raccomandazioni del ministero; hanno reso impermeabile la gestione della banca ad ogni istanza degli azionisti terzi; non hanno diversificato gli investimenti; hanno perso gran parte del loro patrimonio e fatto perdere tanta ricchezza a piccoli risparmiatori e azionisti privati. Nel silenzio di Banca d'Italia e del ministero dell'Economia è necessario che si apra tra gli esperti, attraverso la stampa e l'opinione pubblica, un profondo dibattito, nell'interesse di tutto il Paese.
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