Economia

Ilva, il crac può costare l'1% di Pil

La crisi dell'acciaio è una nuova pesante tegola sull'economia. Il ruolo di eventuali soci stranieri

Ilva, il crac può costare l'1% di Pil

Mentre si stanno studiando misure per fare uscire l'Italia dalla recessione,con la decisione del Gip di Taranto di sequestrare 8,1 miliardi alla famiglia Riva, proprietaria dell'83% dell'Ilva, piomba sulla nostra industria, già in difficoltà, una tegola pesantissima, che rischia di far crollare il nostro settore siderurgico, e può creare gravi danni per la metal meccanica italiana la seconda,per importanza, nel commercio mondiale. È in gioco la perdita dello 0,5-1% del Pil annuo.
Il sequestro dell'altro giorno per un importo che equivarrebbe al risparmio di costi lucrato dai Riva, dal '95, per le mancate bonifiche ambientali, si somma a quello del Tribunale di Milano per 1,2 miliardi per evasioni tributarie nei paradisi fiscali.
Per mettere in regola dal punto di vista ambientale il colossale complesso di Taranto, in base al decreto dell'ex ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, occorrono 5 miliardi, di cui 3 nel prossimo triennio. Essi non sono disponibili nelle risorse attuali del gruppo,che deve sostenere altri investimenti che riguardano l'azienda di Taranto,che produce ben 10 milioni di tonnellate di acciaio.
Occorre, dunque, un aumento di capitale di cui l'83% è a carico dei Riva. In teoria, potrebbe essere finanziato con i beni sequestrati, se non vengono prenotati dal Tribunale di Milano,il cui decreto è anteriore.
Ma la «caccia al tesoro» è complicata e incerta, e rende impervia l'acquisizione di questo apporto di capitale. L'esito non dipende dal mercato, ma da un sequestro di natura cautelare. È pur vero che beni dell'azienda di Taranto non vengono coinvolti dal sequestro, ove funzionali alla produzione, ma ciò non garantisce la prosecuzione dell'attività, che è condizionata dall'esecuzione delle bonifiche, ai sensi della legge, e dalla disponibilità di credito. Questa può venire meno, perché le garanzie date dalla famiglia Riva ora sono carta straccia.
Non è chiaro perché si debbano sequestrare 8,1 miliardi dato che le bonifiche ambientali, sulla base dei nuovi standard molto severi delle legge Clini, ne costano 5. Posso supporre che si tratti degli interessi composti sulle somme che si sarebbero dovute stanziare. Ma gli standard ambientali precedenti erano meno esigenti.
Certo, i Riva potevano effettuare lavori per la sicurezza e la salute, anziché finanziarel'ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e praticare le pubbliche relazioni con Niki Vendola e il comune di Taranto, il cui sindaco dal 2007 è un medico del Pd.
La nuova Direttiva Ue sull'ambiente, però, è entrata in funzione solo dal 2000 e il tema degli inquinamenti a Taranto non è stato posto all'attenzione prima del 2008, quando se ne occupò l'allora ministro Stefania Prestigiacomo, che dovette rilevare una serie di imperfezioni tecniche nelle nuove indagini. Queste sono diventate scientificamente significative anche se statisticamente opinabili, solo dopo le sue ripetute verifiche. Comunque, ora l'Ilva rischia una crisi, sotto la gestione commissariale, dopo le dimissioni del cda. Come alternativa alla chiusura c'è la possibilità che finisca a un gruppo estero rivale, che potrebbe chiuderne una parte, come è accaduto con Thissen Krupp, che comprò aziende italiane concorrenti, per eliminarle gradualmente, nella logica del monopolio.
D'altra parte sarebbe errato che Ilva fosse acquista in maggioranza dalla Cdp in veste di nuova Iri. Soci esteri potrebbero essere essenziali in un gruppo composito per il rilancio di questo complesso di tecnologia avanzata.

Non si tratta di interferire con la logica del mercato, ma di sbloccare un meccanismo di mercato inquinato dagli errori di una famiglia assorbita dalla logica del neocapitalismo di relazione rossa vigente nella seconda Repubblica e da una magistratura che, a volte, dà la sensazione di considerare il capitalismo come male assoluto.

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