«Se qualcuno va dagli operai di Taranto e gli dice di non chiudere la trattativa perché tanto Lega e 5Stelle nazionalizzano e trasformano tutto a gas, salta l'investimento, e ci ritroviamo con una Bagnoli 2, tre volte più grande, e 20mila persone per strada». Non usa più mezzi termini il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda che, dal suo profilo Twitter, riaccende i riflettori sullo stallo Ilva smentendo possibili scenari alternativi che passino da una nazionalizzazione.
Di fatto, il polo siderurgico tarantino si trova da settimane in una sorta di terra di mezzo dove ogni decisione è congelata. Colpa della transizione politica che stenta a decollare. Ma anche dei veti incrociati che, in questi mesi, sono spuntati come funghi sulla vendita del gruppo. Un passaggio di proprietà che una gara pubblica risalente alla scorsa estate ha assegnato alla cordata franco-indiana Am Investco (88,8% Arcelor Mittal), ma che da mesi non va in porto a causa del protrarsi della trattativa tra le parti: sindacati, enti locali, governo.
Trattativa che a detta di Calenda starebbe rallentando nelle ultime settimane a causa dell'ipotesi che il nuovo esecutivo a trazione Lega-5Stelle possa mettere in atto un piano B che esclude la vendita e prevede la nazionalizzazione del polo siderurgico. Una possibilità che manderebbe in fumo i maxi investimenti previsti da Am Investco. Dopo decine di incontri per definire i dettagli occupazionali e ambientali Arcelor Mittal ha, infatti, messo sul piatto 1,8 miliardi per l'acquisizione dell'azienda (da Genova a Taranto) e 2,3 miliardi di investimenti industriali e ambientali. E sul fronte dei lavoratori ha garantito che ne salverà 10mila su 14200 complessivi. «È grave - scrive in un altro tweet Calenda - che favole su nazionalizzazioni impraticabili si diffondano dopo le elezioni rendendo difficile accordo sindacale e vendita. Attenzione a illudere lavoratori e a creare premesse per disastri. Lo dico anche a beneficio di qualche sindacalista».
A bloccare la vendita sono però anche un'altra serie di problematiche: la finalizzazione dell'accordo con i sindacati, e il ricorso al Tar promosso in dicembre dal governatore della Puglia, Michele Emiliano, contro il decreto del nuovo piano ambientale dell'Ilva. Nonchè il ruolo poco chiaro di possibili soci come la Cassa Depositi e Prestiti che nonostante abbia i vertici in scadenza si dice pronta a entrare nell'azionariato della cordata franco indiana. Il tutto, mentre sulla vicenda incombono come una spada di Damocle i ricorsi (dal Tar al Consiglio di Stato), e la decisione attesa per il 23 maggio da parte dell'Antitrust europeo sulla fattibilità della vendita. Uno scoglio, quest'ultimo, visto con timore da più parti. Infine, va considerata la deadline finanziaria: a giugno l'Ilva che attualmente è commissariata - finirà la cassa a disposizione per stipendi e ordinaria amministrazione. Per questo, il vertice del prossimo 4 aprile è considerato un test cruciale.
Se non sarà fatto un passo avanti sostanziale in quell'occasione la trattativa potrebbe andare davvero in fumo mettendo in pericolo i 14.200 dipendenti del gruppo, i 7.600 lavoratori dell'indotto e le 340 imprese collegate.
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