Fissare con troppa intensità l'andamento del Pil Usa può essere distraente. C'è un numero, in questo caso il +3,1% del primo trimestre, che seppur rivisto al ribasso dal 3,2% della prima stima tiene ancora in piedi la retorica trumpiana del «Make America Great Again». La realtà, invece, non è tutta rose e fiori. Le prime crepe aperte dal lungo, e ancora irrisolto, atto di forza sul commercio con la Cina, spuntano infatti proprio sotto la crosta del dato complessivo del prodotto lordo: i profitti aziendali prima delle imposte sono diminuiti del 2,8% rispetto al trimestre precedente, il calo maggiore dal 2015, e sono aumentati del 3,1% rispetto a un anno prima, minimo dal 2017.
Un andamento legato anche all'ormai esaurito effetto della rivoluzione fiscale voluta dalla Casa Bianca che, in prospettiva, sembra destinato a peggiorare se non verrà presto posta la parola fine alla trade war con Pechino. Ma già da oggi la ricerca dell'utile perduto costituisce un grosso problema per chi ha debiti. E la Corporate America ne ha un mare: sfiorano i 10mila miliardi di dollari, un valore superiore a quello toccato durante la crisi delle dotcom e dei mutui subprime. E un motivo c'è: i tassi, rimasti a lungo a zero o vicino a zero per effetto dello Zirp varato dalla Fed durante la Grande recessione, rendevano conveniente indebitarsi. Magari per finanziare operazioni di buyback, buone per inflazionare i titoli quotati e per continuare a pagare ricchi dividendi e bonus. Ma non solo. L'aspetto più allarmante è che i prestiti a leva, quelli che offrono una minore protezione per i finanziatori e gli investitori, superano i 1.150 miliardi. L'importo è doppio rispetto solo a cinque anni fa e va raffrontato con i 600 miliardi toccati all'apice della sbornia del «mutuo per tutti».
Ci sarebbe già di che preoccuparsi se non fosse che i debiti contrassegnati con la tripla B, cioè a un passo dal livello spazzatura, sono saliti dal 2007 del 400%, sfiorando i 3mila miliardi. Basterebbe il declassamento del 50% di questi bond per trascinare quasi 1.500 miliardi di obbligazioni nel girone «junk», occupato ora da titoli per un controvalore di 1.250 miliardi. Una bocciatura che obbligherebbe hedge fund e fondi pensioni con portafogli investment grade a sbarazzarsene. Sempre che vi sia qualcuno disposto a comprarseli. In caso contrario, il rischio è che si inneschi una crisi di liquidità.
Sono nodi che potrebbero venire al pettine in caso di recessione. L'andamento del Pil fra gennaio e marzo sembra dire che siano lontani anni luce da un evento recessivo, ma l'inversione della curva dei rendimenti tra i T-Bond a tre e quelli a 10 anni può - come già capitato - essere l'incipit di un'altra storia. Qualche analista, infatti, teme un forte calo della crescita già nel secondo trimestre (attorno all'1% o inferiore) proprio per effetto della guerra tariffaria con Pechino; e addirittura una contrazione nel terzo, in caso di fiammata dell'inflazione derivante dall'aumento dei prezzi indotto sempre dai dazi. A quel punto, la Fed si troverebbe di fronte al dilemma se intervenire con un taglio dei tassi per combattere la recessione, o se restare ferma sperando che la minaccia inflazionistica si allontani.
La prima opzione è quella per cui Trump va facendo pressione da mesi, e che ha già indotto il capo della banca centrale Usa, Jerome Powell, a sospendere dallo scorso dicembre le strette monetarie. I mercati puntano su due tagli dei tassi entro fine anno. In caso di crisi seria, potrebbero però non bastare.
Rispetto al 2008, la banca centrale Usa è in una posizione molto più scomoda: i tassi non sono al 5%, il bilancio non è attorno ai 900 miliardi (sfiora i 4mila miliardi) e la crescita è la metà rispetto a quelle che avevano preceduto le precedenti recessioni. E le imprese sono molto più indebitate.
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