«Washington, abbiamo un problema». Già. La formidabile macchina sforna-crescita americana s'è inceppata, al punto da emettere un impercettibile singulto da Italietta, con un misero +0,2% ad accompagnare il passo claudicante del Pil nel primo trimestre. Gli analisti, che avevano azzardato un progresso attorno all'1%, si sono stropicciati gli occhi di fronte a quel dato dal retrogusto amaro di stagnazione destinato a complicare la vita a Miss Janet Yellen e alla Federal Reserve tutta. Il ventilato aumento dei tassi, il primo dall'ormai mesozoico 2006, è con buona probabilità rinviato a settembre. Forse, non arriverà prima del 2016. Sempre che, come va sostenendo qualcuno, la fragile ripresa non induca la banca centrale a rimettere in moto le rotative per l'ennesimo round di quantitative easing . I mercati non l'hanno presa bene, soprattutto quelli europei alle prese anche col rebus Grecia: cali robusti ovunque, in ginocchio Francoforte (-3,2%) e con Milano (-2,28%) scivolata sotto i 23mila punti. Wall Street, invece, ha avuto una reazione composta (-0,37% il Dow Jones a un'ora dalla chiusura) dopo aver aspettato il comunicato finale, scritto col bilancino del farmacista dalla Fed. Uno statement che minimizza il rallentamento, «in parte» provocato da «fattori transitori». Salvo però aggiungere che l'istituto alzerà i tassi «quando avrà assistito a un ulteriore miglioramento del mercato del lavoro e sarà ragionevolmente fiduciosa in un ritorno dell'inflazione verso il 2% nel medio termine». Insomma: scarse, se non nulle, le indicazioni sul timing della stretta.
Individuare i colpevoli della frenata statunitense non è difficile. Se la rigidità dei mesi invernali ha fatto la sua parte, condizionando i consumi delle famiglie (appena +1,9%, l'aumento più debole da un anno), la rivalutazione del dollaro (+4,5% nei confronti delle valute dei principali partner commerciali) ha tagliato le gambe alle esportazioni (-7,2%) e tolto un elemento che, fino alla parte terminale del 2014, era stato un volano formidabile per la recovery Usa. Ciò è quanto racconta la Casa Bianca, dimenticando il terzo tassello del mosaico: il forte deprezzamento del petrolio sta facendo sbandare, o peggio ancora fallire, un buon numero di imprese impegnate nella corsa al nuovo Klondike dello shale oil . Non è casuale il crollo (-48,7%) delle spese nel settore minerario, una spia che anticipa che il futuro sarà peggio del presente. E la contrazione degli investimenti in capitale fisso (dai macchinari, pari al 23%, relativa all'intera Corporate America è un altro allarme rosso acceso sul quadro di comando.
La domanda da porsi è una: è mai possibile che un'economia “nutrita“ per anni con gli anabolizzanti del Qe smetta di crescere non appena glieli si toglie? Forse perché le misure di allentamento quantitativo sono servite solo a gonfiare Wall Street, lasciando solo le briciole a Main Street? Così, il compito della Fed non è facile: se alza i tassi con troppo anticipo, rischia di complicare la situazione, fino al punto da trascinare il Paese in recessione.
Per il giro di vite, servono spalle coperte da dati di crescita robusti, con inflazione e mercato del lavoro sotto controllo. Dati che, per ora, la Yellen non ha. Ma l'allarme non è ancora tanto forte da indurla nella tentazione di sfornare un altro Qe. Con tutti i rischi del caso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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