Profumo: «Montepaschi non è in vendita»

«Non vogliamo vendere la banca». Il presidente di Mps, Alessandro Profumo, lo dice a chiare lettere. Nel giorno dell'assemblea più difficile per il Monte dei Paschi, il numero uno ripete che l'aumento di capitale da un miliardo che i soci sono chiamati ad approvare è un'operazione finalizzata a ripatrimonializzare l'istituto, non a liquidarne la storia con altri mezzi. «Non conosciamo assolutamente e non abbiamo la benché minima idea di chi potrà sottoscrivere, ma l'azionista ideale non è un socio industriale», taglia corto il presidente.
È uno psicodramma collettivo (soprattutto per gli azionisti-dipendenti) quello che si consuma nell'Auditorium senese e, per questo, il top management - Profumo e l'ad Fabrizio Viola - cercano di mettere di fronte il pubblico alla dura realtà: non ci sono alternative alla cura se si vuole far sopravvivere il Monte. Però, tutto sarà graduale. «Non siamo in grado di dire oggi se il limite del 4% (al possesso di azioni per un singolo socio; ndr) dovrà essere tolto», ha aggiunto Profumo, precisando che «qualora fosse ostativo all'aumento, dovremo modificarlo perché l'aumento è necessario per mantenere l'autonomia nel tempo». E, nonostante le rimostranze e la commozione dei vecchi soci, che hanno chiesto di bloccare la delibera (e di intraprendere un'azione di responsabilità per l'acquisto di Antonveneta), l'aumento è passato. Mentre, per evitare di inasprire il confronto, Profumo ha ritirato dalle modifiche statutarie il comma che gli consentiva di nominare i responsabili delle strutture che riportano al cda (l'aduit). Decisivo il sì della Fondazione con il suo 34,9 per cento. L'ente, ha sottolineato il presidente Gabriello Mancini (indifferente alle contestazioni della platea), «intende preservare l'indipendenza strategica della banca e, fermo restando l'obiettivo prioritario della difesa del proprio patrimonio, farà quanto in suo potere per salvaguardare lo storico legame con il territorio». D'altronde, il piano industriale dal 2012 al 2015 si articola su una pluralità di interventi. E la ricapitalizzazione fino a un miliardo sarà decisa dal cda a tempo debito (cioè alla fine del periodo) quando si dovranno rimborsare i Monti-bond, che però devono essere ancora liberati dallo Stato. Si tratta di 3,4 miliardi di euro che serviranno a rimborsare anche gli 1,9 miliardi di vecchi Tremonti-bond, ma finora non c'è stato nessun aggiornamento, anche se i due manager hanno precisato che è molto probabile (se non certa) una loro emissione entro la fine dell'anno. Tempo che gioca a favore della Fondazione che ha chiesto di aumentare il capitale «solo se strettamente necessario» (l'ente si diluirebbe attorno al 20%).
Ecco, perché assume moltissima importanza la realizzazione del business plan. Viola, dopo avere annunciato che nel terzo trimestre la raccolta è stata positiva, ha ribadito che le dismissioni sono «un pilastro fondamentale» e che si continuerà a lavorare in tal senso anche dopo la cessione del 60% di Biverbanca. Il prossimo passo sono il credito al consumo e il factoring. Analogamente fondamentale sarà la ripresa dei negoziati con il sindacato. «Abbiamo apprezzato le loro proposte alternative - ha detto Viola - ma non possiamo permetterci di non arrivare all'obiettivo». Delle 2.

300 uscite previste dal piano con l'esternalizzazione del back office, si potrà tornare a parlare di 1.600, ma solo a condizione che venga attivato il Fondo esuberi. Il segretario Fiba-Cisl, Giuseppe Gallo, ha denunciato «il rischio di implosione del sistema di regole» appellandosi all'Abi.

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