Standard&Poor's appiccica il bollino nero del default sulle spalle dell'Argentina. Per ora, si tratta di un fallimento di tipo selettivo, cioè di quelli parziali riguardanti solo una parte del debito, ma la sostanza non cambia: il piano messo a punto mercoledì scorso da Buenos Aires per riscadenzare 101 miliardi di dollari di prestiti, fra i quali anche i 57 miliardi ottenuti dal Fondo monetario internazionale, ha subito fatto alzare le antenne dell'agenzia di rating. Ai cui occhi, la mossa di allungare i termini di rimborso «in via unilaterale» rappresenta «un default in base ai nostri criteri».
Di qui la decisione di tagliare a «SD» (selective default, appunto) il giudizio sul debito in valuta locale ed estera e a D (default) quello sulle emissioni a breve termine, motivata «dal contesto finanziario in rapido deterioramento, dall'assenza di fiducia dei mercati finanziari in merito alle iniziative politiche sotto la prossima amministrazione e dall'incapacità del Tesoro di rinnovare il debito a breve con il settore privato».
Insomma: S&P nutre seri dubbi sulla capacità del Paese di tenere i conti sotto controllo. La riprofilazione richiesta sul debito è del resto la palmare prova di difficoltà non risolvibili attraverso la gestione ordinaria. Resa peraltro impossibile proprio dalle condizioni in cui si trova il Paese sudamericano. Potenzialmente tra i più ricchi del pianeta per le risorse a disposizione, l'Argentina è scossa da continue crisi economiche che dall'indipendenza ottenuta nel 1816 hanno provocato, con quella di ieri, ben nove bancarotte. L'ultima di natura selettiva risale appena al 2014. E da allora, le cose non sono certo migliorate. Anzi. Il rapporto debito-Pil è esploso fino a sfondare quota 120, con una progressione di oltre 34 punti percentuali nel giro di appena un anno. Le riforme liberiste del presidente Mauricio Macri, suggerite dal Fmi in cambio del più cospicuo pacchetto di aiuti mai concesso a una nazione sull'orlo della bancarotta, non sono riuscite a raddrizzare una barca che imbarca acqua da più parti. Recessione e inflazione galoppante hanno ancora una volta messo a nudo il peccato originale da cui l'Argentina non riesce ad affrancarsi: la dipendenza dal dollaro, un abbraccio mortale che era stata la causa principale del crac del 2001.
Ma liberarsi da questo vincolo è tutt'altro che facile: la crescente diffidenza dei connazionali di Borges e Maradona nei confronti di un peso che storicamente ha subìto l'onta di innumerevoli svalutazioni, ha costretto i governi a indebitarsi in moneta Usa. Oggi l'80% del debito argentino è espresso in greenback. E ripagarlo è diventato ancor più oneroso, a causa dell'apprezzamento del biglietto verde indotto dalla risalita dei tassi americani e dalla guerra dei dazi. Fino al punto da costringere alla resa la Casa Rosada.
La sconfitta patita da Macri alle primarie presidenziali ha poi finito per accelerare la crisi.
Borsa e peso crollati, costo del denaro alle stelle (al 74%), con i capitali in fuga (un esodo da 40 miliardi negli ultimi mesi) e il prosciugamento delle riserve valutarie (crollate a 57 miliardi), sono tutti segnali di come gli investitori considerino una minaccia la possibilità che in ottobre si possa insediare alla presidenza un peronista come Alberto Fernandez, pronto a varare manovre in deficit e ad abbassare i tassi.
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