Equo e solidale con un pizzico di antibiotico

Caro Granzotto, non ne vengo fuori. Non riesco a comprendere il significato di «Equo e Solidale». Certi miei amici sostengono che si tratti di una specie di consorteria di «Cavalli che si vogliono bene». Io sono arrivato solo alla terza elementare e non me la sento di giudicare. Può fornirmi lei rassicuranti parole sull’argomento?


Bella, caro Romolotti, quella dei cavalli concordi, ma non doveva rivolgersi a me per esser rassicurato. Da quella faccenda ne sto alla larga e posso affermare con legittimo orgoglio che mai fui tentato dall’acquistare alcunché che fosse «equo e solidale». Mi capita di far acquisti equi. Mi capita anche di farne di solidali alle aste benefiche. Ma tutte e due le cose insieme, mai. Giuro. Comunque sappia, mio caro amico, che il Commercio equo e solidale, così come il Turismo responsabile e consapevole, è uno dei kalashnikov sociali dei nipotini di Che Guevara. Ci fanno la rivoluzione. «Contro lo strapotere delle multinazionali acquista prodotti equi e solidali!» recita un loro grido di battaglia e l’intento è quello di colpire al cuore «un modello economico che antepone il profitto ai diritti fondamentali degli esseri umani». Presupposto numero uno di questa missione è che Cocacola o McDonald’s, Barilla o Rana li calpestino, i diritti umani. Incatenando gli impiegati alla scrivania e gli operai ai macchinari. Sottoponendo i produttori di materie prime a odiose angherie e comprando le loro merci con perline e specchietti, come faceva Pizzarro con gli indios. Confezionando i loro fascistissimi articoli in stabilimenti asettici, magari forniti di riscaldamento, aria condizionata, laboratori di analisi, controlli sanitari, mense. Non in qualche favela o tucul centrafricano, come l’industria alternativa e democratica, come il commercio equo e solidale pretenderebbero. All’aria aperta, al sole e alla pioggia, magari tra l’allegro ruspare delle galline o il pittoresco grufolio dei maiali. Presupposto numero due è che i miliardi di consumatori che fanno la spesa dal droghiere sotto casa o in un supermercato siano grosso modo dei negrieri, insensibili alla civiltà kikuiu o aymara, ai pittoreschi usi e costumi andini o kenioti. In caso contrario, mica acquisterebbero un chilo di pasta di grano duro o un qualsiasi barattolo di caffè. Riempirebbero equosolidalmente il carrello della spesa con spaghetti di farina di quinoia (cereale coltivato fino dai tempi degli Incas, tengono a sottolineare gli equosolidali, mica come il grano, coltivato già dai tempi di Matusalemme) o di guaranà dei Saterè Mawè.
Oltre a promuovere la giustizia sociale, lo sviluppo sostenibile e la guerra all’imperialismo, il commercio equo e solidale vanta assolute eccellenze ecoambientaliste e biodinamiche. Poiché «coltivati nel rispetto delle persone e dell’ambiente, una garanzia di sicurezza e di qualità per chi li consuma, una possibilità di uno sviluppo dignitoso a chi li produce», confezionati da nude mani terzomondiste gelose custodi di pratiche e lavorazioni tribali, le merci distribuite sono garantite non solo politicamente corrette, ma genuine, prive di sostanze estranee alla propria natura, non adulterate o sofisticate. Come il miele Valdivia, lavorato equosolidarmente da certi bravi compañeros cileni e così pubblicizzato: «È prodotto in zone non contaminate. È frutto dell’amore degli apicoltori per la natura. Tutti i produttori di miele di commercio equo e solidale svolgono l’attività di apicoltura in modo tradizionale, senza alcun intervento di riscaldamento o di modificazione. È un miele naturale.

È un miele di alta dignità prodotto senza lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente». Be’, di alta dignità quel miele magari lo è pure, però – come ha scoperto Rai3 – anche addizionato con un antibiotico di sintesi, la sulfametazina, sostanza vietata dalle legge.
Paolo Granzotto

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