"Eravamo gioventù da bruciare"

La notte del 16 aprile 1973 l’appartamento della famiglia Mattei venne incendiato da alcuni esponenti di Potere operaio. Morirono Virgilio e Stefano, fratelli di Giampaolo. Che aveva 4 anni, e ora racconta

"Eravamo gioventù da bruciare"

Pubblichiamo per gentile concessione dell'editore sperling & kupfer il primo capitolo - "Sono nato sfortunato" - de La notte brucia ancora (pagg. 173, euro 14) scritto da Giampaolo Mattei con Giammaria Monti. 

Giampaolo Mattei

Erano ragazzi. Le vittime e i carnefici. Erano gioventù da bruciare. Peggio dei ragazzacci del film che rese celebre James Dean. Gioventù da bruciare, malaerba da estirpare: personaggi equivoci o, nella migliore delle ipotesi, avventati. Esclusi dalla pietà dei propri simili, perché diversi dagli altri, una diversità di nascita e di appartenenza sociale. Per trentacinque anni - nel tempo dell’odio e anche dopo - una larga fetta di questo paese ha considerato la mia famiglia e i miei fratelli così. Non vittime. Non esseri umani, e nemmeno ragazzi. Gente che in qualche modo se l’era cercata, piuttosto. Anche se i miei fratelli erano morti nel cuore della notte, in casa propria. Anche se qualcuno aveva incendiato una tanica di benzina dietro la nostra porta e poi se ne era andato via, convinto di aver compiuto una sorta di dovere civico. Il 16 aprile del 1973, la mia famiglia si risvegliò nel suo appartamento di Primavalle, a Roma, avvolta dalle fiamme. Non ho ricordi di quella sera e per anni anche la memoria dei racconti mi è stata negata, per una scelta di estrema protezione da parte dei miei genitori.

Per salvarsi mio padre e le mie sorelle si erano dovuti buttare dalla finestra del terzo piano, ritrovandosi in strada fratturati e ustionati. Io invece - che allora avevo solo quattro anni - ero uscito con mia sorella in braccio a mia madre, dalla porta di casa.

Mamma era stata l’unica che era riuscita ad attraversare il rogo, prima e ultima nella nostra casa.

Sono nato fortunato, dice qualcuno.

Non ne sono così sicuro: per una parte importante dell’opinione pubblica, infatti, nessuno di noi meritava solidarietà incondizionata. Dopotutto eravamo fascisti: molto probabilmente ce l’eravamo cercata, di sicuro quell’incendio era frutto di un regolamento di conti, di una «faida interna» (come si disse allora, ricorrendo al vocabolario della mafia), forse ci eravamo dati addirittura fuoco da soli, un raccapricciante caso di masochismo per far ricadere la colpa sui «rossi» innocenti. Gioventù da bruciare, certo, e bruciata non per colpa di altri, di chi aveva appiccato le fiamme: per colpa nostra. Non lo potevo certo capire, all’epoca, ma era come se fossimo stati bruciati dall’odio ideologico di una stagione. Non importava più di tanto che Virgilio fosse poco più di un ragazzo e Stefano appena un bambino, di cui sono rimaste soltanto le foto in grembiule nel cortile della scuola. Essendo fascisti, borgatari, e inevitabilmente - per la natura che veniva attribuita al nostro ambiente sociale e politico - un po’ provocatori, dovevamo proprio essercela cercata da soli. E allora si inventavano inesistenti arsenali che mio fratello avrebbe conservato sotto al lettino della stanzetta in cui dormiva insieme a Stefano e ci si domandava come mai Virgilio avesse chiamato soccorsi per telefono, parlando con chi, e per quante volte. E ci si chiese persino - sui giornali di quei giorni, non in una miserabile diceria - come mai mia madre fosse arrivata vestita in strada, quella sera. Non è che sapesse già quello che sarebbe accaduto? Non è che per caso si era preparata al rogo dei propri figli come si fa per una festa da ballo? Era falso anche quello, fra l’altro, perché mamma si ritrovò fra i pompieri scalza, sanguinante, in camicia da notte. Ma noi, «i Mattei», da quella sera in poi, nell’immaginario di una parte importante di questo paese, non potevamo essere dei normali esseri umani, con le nostre debolezze, le nostre ferite, i nostri dolori. No.

Eravamo altro. Carne da cannone.

Subumani. Eravamo fasci.

Tutto questo, per fortuna, fu in parte risparmiato al bambino che ero. Ma accadde, e tornò a pesare come un’ombra sulla mia vita futura. E quando vennero arrestati i ragazzi che quel rogo lo avevano appiccato - alcuni coetanei di mio fratello, extraparlamentari di sinistra che in qualche caso persino conoscevamo - molti si convinsero subito della loro innocenza. Dovevano essere vittime di un complotto, ovviamente, non era possibile che avessero ucciso, volontariamente, consapevolmente, in quel modo così barbaro. Era una montatura della polizia, fascista anche quella ovviamente, come del resto lo Stato stesso. E quando due dei colpevoli si diedero a un’immediata latitanza e il terzo sparì subito dopo l’assoluzione in primo grado, si guardò al loro gesto con indulgenza e comprensione.
Compagni che avevano sbagliato. Intellettuali e militanti fecero a gara per aiutarli, qualcuno, che oggi si pente o non ricorda più, li accompagnò fisicamente lungo i sentieri della latitanza e io mi trovai a crescere in un mondo di valori curiosamente rovesciati.

Eravamo noi che avremmo dovuto vergognarci, non loro.

Quel rogo, però, visto oggi, non fu solo l’incendio che sottrasse alla mia famiglia figli e fratelli, ma la fornace in cui vennero carbonizzati i sogni di una generazione, a destra e a sinistra. Quando un bambino brucia per effetto dell’odio ideologico, l’innocenza la perdono tutti, anche quelli che pensano di essere estranei al lutto. A destra si alimentò per anni la brace della rabbia; a sinistra crebbe pian piano la sofferenza per una rimozione impossibile. Ma adesso, dopo un’inchiesta lunga una vita - che fatica a produrre sentenze, però almeno ha ben chiarito chi siano le vittime e chi i carnefici -, dopo che tanti muri sono caduti, nella memoria dei protagonisti, nei ripensamenti di chi visse quella stagione, nei libri che stanno cercando di sanare gli orrori giornalistici prodotti dalla stampa negli anni di piombo, adesso forse anche la storia della mia famiglia e dei miei due fratelli può essere nuovamente raccontata. Non per regolare conti o cercare vendette postume. Non per togliersi soddisfazioni personali. Ma per chiudere la stagione dell’odio con la forza di una memoria privata che può essere finalmente condivisa con gli altri. Per estinguere davvero, se è possibile, le fiamme di quel rogo di verità che per trentacinque anni non hanno mai smesso di ardere. È tempo che ai miei fratelli sia restituita la loro identità: quella di un ragazzo e di un bambino che non erano né migliori né peggiori di altri, ma a cui, come a tutti gli altri, doveva essere riconosciuto il diritto alla vita, alla propria appartenenza e alle proprie idee, quali che fossero. Adesso è il tempo di spegnerlo davvero, questo rogo. È il tempo di spegnere le braci di quella notte che brucia ancora. Non solo per la mia serenità personale, né per quella delle mie sorelle e nemmeno per quella di mia madre, che non potrà recuperarla mai più.

Nemmeno per chi appiccò quelle fiamme e ha scelto di vivere una vita di impunità e latitanza morale. Non solo per una generazione, non per i carnefici o per le vittime.

Per tutti noi. Per quella che in altri luoghi del mondo si chiama la coscienza di un paese.

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