La faccia di Boris Johnson ti guarda da vicino: «Londra è tua». Era la foto che offriva al mondo durante i Giochi olimpici: venite qui e sarete felici. Ora quella è un messaggio: è tua, perché io sono pronto a prendermi di più. Vuole quello che non ha. E ora vuole la Gran Bretagna. L'ha scritto l'Economist: «Si prepara per prendere il posto del suo amico-rivale David Cameron. Un anno fa non avrebbe avuto chance, ora sì». Più popolare, più divertente, più buffone, più geniale del premier: un'ovazione ogni volta che il suo volto veniva mandato in onda sugli schermi dello stadio olimpico. Boris qui, Boris lì. Ovunque. Il capello arruffato, la giacca sgualcita, la camicia sempre fuori posto. Uno sbagliato che diventa giusto. Piace, Johnson. L'hanno spesso dipinto come un clown, un mezzo matto capace di far divertire più che di governare. Sarà vero, eppure in questi giorni l'Inghilterra s'è chiesta se non sia davvero l'uomo di domani. Rimbalza sui media e finisce in America, poi ovunque. Time ieri lo raccontava così: «Il sindaco di Londra è il più grande vincitore delle Olimpiadi».
Un simbolo locale diventato globale. Ha sfruttato l'occasione: il governo era in difficoltà, Cameron in ribasso attaccato dai giornali che gli hanno chiesto di raccontare come riuscirà a recuperare i soldi che il Regno Unito ha speso per le Olimpiadi. Johnson s'è l'è cavata con l'ironia sulla sua goffaggine, sulle presunte gaffe, sulle altrettanto presunte cadute di stile. Poi ha rilanciato: eccomi, sono il sindaco di una città che ha fatto una cosa incredibile. È un po' la storia della sua strana amicizia con Cameron: l'altro preciso, bravo, puntuale e però sempre un po' in difficoltà; lui scombinato, arruffone, ritardatario e però sempre in grado di ribaltare il tavolo. I due si conoscono da una vita, da quando erano studenti a Eton. La leggenda e una autobiografia non autorizzata raccontano che un giorno Boris si avvicinò a David e gli disse: «Sai qual è la differenza tra me e te? Tu potrai anche arrivare a Downing Street, io invece diventerò premier e poi anche presidente degli Stati Uniti». Tecnicamente può: è inglese e pure americano. Doppio passaporto perché Johnson è nato a New York.
Devi partire da lì per capirlo. Devi cominciare dall'origine per raccontare la storia stravagante di un uomo stravagante. Uno che non si ferma, uno che ha l'ambizione di diventare il leader dell'Europa pur detestando l'Europa. Non è questione di alleanza politica, ma di continente. Johnson crede poco in Bruxelles e molto nella geografia. È un conservatore moderno. Uno che dall'alto di una vita sconclusionata non pretende di trasmettere valori, ma ne riconosce l'esistenza. Per anni l'Inghilterra s'è chiesta molte cose di lui, a cominciare dal nome. Perché Boris? È l'omaggio a un signore russo che offrì un passaggio per New York ai suoi genitori: erano due studenti che nel 1964 stavano facendo un viaggio in America. Non avevano un soldo, lei era incinta. Dovevano raggiungere una città e trovarono un alleato straniero che più straniero non si poteva. Boris permise a questo bimbo di nascere e loro, Charlotte e Stanley, lo ricambiarono dando al bambino il suo nome. Alexander Boris de Pfeffel Johnson. Non uno qualsiasi, a dispetto del viaggio squattrinato nel quale nacque. In realtà viene da un albero genealogico complicato, ma molto chic: il suo bisnonno era il turco Ali Kemal, poeta e politico liberale filo occidentale assassinato quando era ministro degli Interni. Sposò Winifred, mezza svizzera e mezza inglese, che diede il suo cognome ai figli. Uno era Stanley, padre di Boris, ricercatore universitario, giornalista, intellettuale, politico diventato eurodeputato nel 1979. La mamma, Charlotte, era figlia del Lord liberale Fawcett, una famiglia con antenati ebrei lituani e nobili francesi. Oggi i Johnson contano 17 nazionalità diverse, ma un'identità britannicamente corretta. Al di là delle sue battute sulla possibilità di arrivare alla Casa Bianca, il sindaco di Londra si sente profondamente inglese e rivendica con un orgoglio smisurato la sua nazionalità principale. Anche per questo lo amano, a Londra. Perché dice che gli inglesi dovrebbero fare più figli e perché non ha paura di dire che le donne britanniche che sposano gli immigrati saranno un problema per il Paese. Si attira le ire dei laburisti, fa impazzire le post femministe, ma non tace. E se qualcuno gli rinfaccia le sue origini multietniche, lui risponde che il problema non sono le nozze miste. No, no, il guaio, secondo Boris, è che le donne occidentali poi rinunciano ai loro principi e alle loro rivendicazioni accettando i soprusi di chi non le vuole libere.
La popolarità del sindaco è direttamente proporzionale alla sua bizzarria. La usa e la gestisce perfettamente. Durante la prima campagna elettorale, nel 2008, c'era una storiella che circolava e spiegava al millimetro Johnson: «Boris è una persona intelligente che si finge buffone, mentre Ken Livingstone è un buffone che si finge intelligente». La dimostrazione è quando c'è da giocarsi qualcosa, il sindaco non sbaglia. Non fa battute, non fa gaffe, non fa nulla che possa metterlo in difficoltà. Il clown esce dopo, a cose fatte, quando c'è da raccontare alla gente che in fin dei conti tra lui e loro la differenza è poca. Anche se lui ha studiato a Eton e poi a Oxford, anche se lui è il più grande studioso britannico di Roma, anche se lui è cresciuto in un ambiente colto e snob. È la capacità di capire chi hai di fronte e chi ti vota. È l'abilità che oggi non viene riconosciuta a David Cameron, bravo, intelligente, preparato, ma freddo. Distante. È la differenza che in questi giorni notano tutti e che fa innervosire il premier. Il Guardian ha raccontato che lo staff di Downing street si sta già preparando a contrastare la popolarità del sindaco che vuole prendersi l'intero paese. È una sfida in casa: conservatori, contro conservatori.
Può farcela, Johnson? È la domanda che s'è fatto Federico Sarica nell'ultimo numero di Studio. E la risposta che s'è dato è un altro punto interrogativo: perché no? Il mondo si divide in Boris-scettici e Boris-entusiasti. Ora è il momento dei secondi: lo supporta l'Economist, lo supporta Murdoch, lo supporta un bel pezzo di Inghilterra che lo vede come il futuro. «Uno che sa gestire Londra, non ci mette niente a gestire tutto il resto», ha scritto il Times. Johnson legge i giornali. Li conosce, sono il suo mondo: c'ha vissuto per anni e non li ha mai abbandonati. Gli hanno dato da mangiare, gli hanno dato la vita, gli hanno dato anche visibilità.
Piaceva alla gente, un sacco. Poteva avere miliardi, ma ha scelto di no. Ricco, ma non ricchissimo. Aveva un'altra ambizione. Grossa e irresistibile: Londra. E dopo Londra il resto. Ora può.
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