Valeria Braghieri
Era un traguardo ma avrebbe dovuto essere solo l'inizio. Un assaggio di quello che avrebbe potuto fare, da grande, con suo papà. «Stai qui e aspettami, che tra un po' corriamo assieme, adesso guarda e impara». E lui era rimasto lì ad attenderlo all'arrivo, in attesa di partire anche lui, un giorno. Con le gambe più lunghe, il fiato più robusto, i muscoli più caldi. Tremante per una vittoria che era già anche un po' sua: perché quando i bambini hanno la grazia di poter credere nei loro padri, allora possono credere anche in loro stessi. Suo papà stava andando veloce e allora era lui stesso ad andare veloce, anche da fermo, lì sul marciapiede.
Sventolava un cartello e scalpitava e strizzava gli occhi per riconoscere la pettorina e la fisionomia. Si alzava in punta di piedi e sbirciava tra le foreste di spalle che gli si stagliavano davanti, con le guance rosse e le tempie accaldate. Lo aspettava ormai da chilometri su quel pezzetto d'asfalto al quale faceva la guardia perché non lo calpestassero in troppi prima di lui. La mamma, la sorella, i fratelli tutti attorno. E lui minuscolo lì in mezzo. Ad aspettare il papà e ad aspettare di crescere. «Dài papà, arriva. Sono Martin, sono qua. Ti sto aspettando, come mi avevi detto. Mi vedi?». L'aveva preso sul serio il compito di quella porzione di traguardo da difendere col tifo cieco che hanno i bambini nei confronti dei genitori. Perché quello era il suo dovere di oggi e intanto era più prudente così: aspettare e sperare. E finalmente lo aveva visto, il suo papà. Affaticato ma gagliardo. Gli sembrava più alto di tutti e più veloce. E allora ci aveva messo poco a sgusciare in mezzo a quella fila di gambe e ad arrivare in pista per abbracciarlo. «Eccomi papà sono qua, dài che vinci tu». Gli era appena corso incontro, gli aveva sorriso con i pochi denti che a otto anni resistono ancora in bocca e gli si era aggrappato al collo. Impiastricciandosi della sua fatica, appiccicandogli il suo orgoglio «sei tu il più bravo, papà, dài che vinci». Visto? Ecco che avevano vinto in due con quell'abbraccio: Martin che tornava al suo posto sul marciapiede, il suo papà che continuava la maratona verso il traguardo. La festa di primavera, il sole, la gara, Boston allegra e la colazione di quella mattina fatta in fretta ma tutti assieme: Martin e i suoi fratelli, Martin e la sua mamma, Martin e il suo papà che oggi correva per far vincere anche lui. Gli americani che giocavano a fare gli americani, come piace a loro. E un'esplosione maledetta a insegnargli, a ricordargli che non è necessario avere delle ragioni per avere paura.
Si sono messe a grandinare lame e una luce cattiva come camomilla avvelenata. Il tempo di tornare al suo posto e Martin è saltato per aria su una bomba carogna piena di odio e schegge. È saltato per aria su una bomba che non era sua. È esploso tutto proprio lì, in quel punto. Dove lui aspettava e dove era appena tornato a mettersi, obbediente e prudente. Quel pezzetto di asfalto scoppiato, le fiamme, la carne a pezzi. Martin dilaniato, sua sorella con una gamba strappata, la mamma, Denise, ferita. La puzza di fumo e di fine. Di Martin, della sua famiglia, di sua sorella che era intera prima di quella giornata e adesso non lo sarà mai più, dell'America tutta. Puzza di idiozia. Che si appiccica addosso più del sangue e non si lava via. I vicini in fila sul vialetto di una famiglia esemplare che portano fiori e lacrime e buoni ricordi.
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