Hebron anche stavolta eccelle nel dramma, nella difficoltà, nella cupezza. Qui e nei dintorni è l'epicentro della disperata ricerca dei tre ragazzi israliani rapiti. Arriviamo alla Yeshivà, il collegio religioso dove studia Eyal Yfrach, uno dei ragazzi rapiti ormai otto giorni fa. «Eyal ti aspettiamo» è scritto sulla porta della sua stanza. È scritto storto, con inchiostro nero, nello stile incurante delle cose di questo mondo che ha la Yeshiva Beith Romano, un'affermazione di volontà ebraica come tante a Hebron, dopo migliaia di anni di su e giù fra espulsioni e presenza. Qui Abramo comprò la tomba per Sara, qui sono sepolti i Patriarchi nel castello che costruì Erode il Grande, un santuario dove c'è stato un macello continuo e alternato di musulmani e ebrei, sacro a tutte le religioni. Quando hai attraversato le strade semideserte, toccato con mano il fatto che tutti stanno chiusi in casa, palestinesi ed ebrei, mentre si aggirano fra le mura sbrecciate solo alcune pattuglie di soldati, arrivi a Beit Romano, un palazzo che appartenne quasi da due secoli a una famiglia ebraica italiana, e ora ospita in maniera spartana, come tutto qui, 320 ragazzi. Sono parte dei 1000 ebrei che vivono fra 250mila palestinesi. Una scelta estrema. Il compagno di stanza Miki e un altro amico, Or, raccontano con coraggio il carattere di Eyal. Usano l'aggettivo «forte» per descriverlo, e di nuovo, al plurale, per spiegare come saranno loro qualsiasi cosa accada, sono a Hebron, studiano dove studiarono i padri dei loro padri, qui resteranno. «Eyal è qui solo da un mese e mezzo, prima di andare nelll'esercito vuole capire qual'è il suo compito nel mondo. Sa benissimo, chissà dove, che lo scopo dei suoi rapitori è una minaccia per tutti gli ebrei: se ne devono andare da Israele. È una prova terribile, ma Eyal è forte».
Ogni tanto Miki sbaglia i verbi, parla al passato invece che al presente del suo amico. Ma si corregge: «Lo aspettiamo ogni minuto, entrerà da quella porta». E indica la terrazza dove un gruppetto di soldati sorveglia. Miki e Or con gli altri studenti si aggirano nelle stanze conventuali, il loro fisico e l'atteggiamento è da ragazzini sportivi, glabri, moderni, figli di mamma; per quanto possono mantengono il ritmo, studio con un po' di palestra nel mezzo. Ci volle un anno prima che la famiglia di Gilad Shalit e tutta Israele ricevessero da Hamas la prova che il ragazzo rapito era vivo. Qui, dopo sette giorni, lo spokesman dell'esercito, Peter Lerner, indica i principi generali dell'operazione. L'ipotesi è che siano vivi e nel West Bank, l'epicentro dell'indagine è Hebron con un allargamento alla Samaria, Benyamina, Jenin, dove la reazione dei palestinesi è stata dura. Diecimila soldati che frugano, entrano di notte negli appartamenti delle 7 grandi città del West Bank e nei sui 430 villaggi rurali per ora riescono nel secondo scopo che Lerner ci indica. Il primo, è trovare i ragazzi. Il secondo smontare Hamas, uomini, soldi, armi. Hamas non ha rivendicato il rapimento, ma si dice orgogliosa di esserne sospettata e lo esalta. Forse, piccoli pezzi di verità vengono rivelati a porte chiuse ai genitori di Naftali Frenkel, di Gilad Shaar e di Eyal Yfrach. Gli incontri a porte chiuse come quello di ieri con Shimon Peres certo servono anche a comunicare qualche traccia trovata a Hebron, a Halhoul, a Jenin. Ma qui a Hebron si capisce come un grande esercito possa essere beffato da pochi fanatici: lo si vede nel paesaggio scabro e impietoso, nell'intrico di vicoli e di legami protettivi, i terroristi potrebbero essere insospettabili signori nessuno arruolati in Giordania... I soldati col viso dipinto di nero calcano il terreno coltivato a ulivi e vigna, indossano cappelli mimetici, quelli sui tetti hanno il mitra imbracciato, quelli che si preparano a perquisire le case durante la notte ricevono un briefing dal Capo di Stato Maggiore: «L'operazione è difficile - dice Benny Ganz - piena di pericoli. Coraggio, è come se steste salvando vostro fratello. Ricordatevi quando perquisite le case che molti palestinesi non c'entrano, comportatevi bene». Trecento persone sono state fermate, 52 terroristi liberati nello scambio Shalit. Abu Mazen, con gesto coraggioso, ha detto che i rapitori «ci vogliono distruggere» e che quei ragazzi sono «esseri umani».
Ma su facebook si è formato un gruppo «Three shalits» che mostra, e fa mostrare anche ai bambini, tre dita per la gioia di aver rapito i tre teenagers. Armi, strumenti di incitamento, computer, transazioni finanziarie... molte cose sono venute alla luce in questa buia notte di Hebron. Sembra non essere rimasto più molto da frugare. Ma dove sono i ragazzi?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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