Stenio Solinas
nostro inviato a Cannes
Per Shortbus, il film americano di John Cameron Mitchell, fuori concorso alla Selezione ufficiale, che ieri ha riempito di sesso il 59° Festival di Cannes, bisognerebbe ripristinare, attualizzato, il Visto da Destra e Visto da Sinistra del Candido di Guareschi. Funzionerebbe pressappoco così: VISTO DA DESTRA: gli Stati Uniti del Partito democratico sentina di ogni vizio con New York Sodoma e Gomorra del XXI secolo. Tutte le perversioni vi sono praticate e la parte debosciata della nazione affonda nel più turpe squallore. Degenerati, pervertiti, mezzi uomini, tribadismo saffico in un sedicente spettacolo che offende la morale e la civiltà che la vera America diffonde con coraggio nel mondo. VISTO DA SINISTRA: l'altra faccia Usa che il fanatico fondamentalismo dell'amministrazione repubblicana di George Bush cerca di distruggere. Un inno alla fratellanza, alla diversità e alla tolleranza coniugato in tutte le sue forme. Una ricerca intellettuale disinibita resa con gusto e intelligenza. La più alta forma di resistenza contro il totalitarismo guerrafondaio di Washington è nella pace e nell'amore di New York.
Mettiamola così. Tutto si potrà dire della cinematografia d'oltreoceano, ma è impossibile negarne la vitalità e l'impressionante ricchezza di temi. Qui a Cannes pubblico e critica hanno potuto e potranno vedere dal kolossal di cassetta (The Da Vinci Code), al film di denuncia (le frodi alimentari di Fast food Nation), dal documentario ambientalista sull'effetto serra (An Inconvenient Truth) a quello nazionalista sull'11 settembre (United 93 con la rivolta dei passeggeri del Boeing 757), dal cartone animato di fantascienza (Over the Edge, con le voci dei protagonisti affidate a Nick Nolte e Bruce Willis) al fantastico con effetti speciali e al fantapolitico (X Men: The Last Stand, Southland Tales), dall'horror (Bug) al costume storico (Marie Antoinette)... Fate un paragone con le altre cinematografie presenti e avrete un quadro veritiero e realistico della situazione, nonché l'estrema difficoltà a stabilire una unica linea di confine, ideologica e politica, in grado di tagliarla a metà.
Chi lo scorso anno si era esaltato o si era indignato per Battaglia in cielo, il film sudamericano che si apriva con un coito orale, si compiaceva della laidezza dei fisici impegnati negli amplessi e si concludeva all'insegna del pentimento flagellatorio, davanti a Shortbus può fare lo stesso ed esibirsi in veste di censore o di fan della trasgressione. In quest'ottica, bisogna convenirne, il film è una manna e quello che faceva vedere la pellicola di cui sopra è niente al confronto: la prima erezione sullo schermo è dopo appena una manciata di secondi, la prima eiaculazione è nell'arco di un paio di minuti, in un quarto d'ora c'è già stato di tutto, davanti e di dietro, in piedi e seduti, a mano, a vela e a motore...
Ciononostante, il film ha una sua grazia che in qualche modo lo salva dalla noiosità greve del porno e dalla gratuita cupezza in cui quasi sempre affondano le pellicole che hanno il sesso spinto al centro della storia. Qui il tono prevalente è quello della commedia: c'è una sessuologa che però non ha mai avuto un orgasmo in vita sua, c'è una «dominatrice» esperta in pratiche sadomaso che sogna di fare le torte e di avere un cagnolino, c'è una coppia gay che vorrebbe aprirsi a un tris, ciascuno pensando di fare contento l'altro...
Shortbus prende il suo titolo dai pullman scolastici, i lunghi Schoolbus gialli che i ragazzini americani ben conoscono. Quelli più piccoli, i pullmini, gli shortbus, appunto, sono riservati ai bambini caratteriali, a quelli handicappati, ma anche a quelli superdotati, insomma ai fuori norma che hanno bisogno di un'attenzione particolare. Metafora di una minoranza, Shortbus è però anche il nome di un club privato, zona franca di piacere e di discussione. Un tipo di ritrovo che ebbe il suo apogeo negli anni Settanta, si svuotò con l'esplodere dell'Aids, si è riaffacciato al tornante del secolo, ma dopo l'11 settembre si è trasformato in un piccolo confessionale laico di nevrosi, sesso e paure.
Da questo punto di vista il film è uno spaccato interessante su quel mondo di avanguardia e di frontiera che New York è sempre stato, rifugio e/o condensato del meglio e del peggio della nazione. La chiave sessuale serve al regista come cartina di tornasole, perché mai come in questo film il sesso è fatto, mostrato ed esplicitato eppure mai è così evidente il senso di precarietà, di insoddisfazione, di solitudine e di abbandono che gli fa da contorno. Certo, c'è molto velleitarismo made in Usa, molta ricerca di quel «diritto alla felicità» che agli orecchi più cinici di un europeo suona, oltreché inutile, patetica, senza contare quell'onanismo intellettuale che trasforma in arte qualsiasi cosa, dalla polaroid al filmino amatoriale al bricolage, in un combinato disposto che spiega molte miserie dell'avanguardia, trans o post la si voglia chiamare.
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