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Il fantasma della Biennale

Il fantasma della Biennale

Senza alcun pudore, dopo aver preparato una Biennale lacunosa, offensiva verso la creatività italiana (femminile e maschile), dopo essersi mosse più con prepotenza che con grazia, dividendo la Biennale, senza alcuna visione d'insieme dell'arte quotidiana, e pur con tutte le variazioni possibili, in due tronconi incomunicanti obbedienti a regole, non casualmente, complementari: l'una ordinata e inanimata, l'altra caotica e spompata, le due curatrici si sono, finalmente all'unisono, ribellate alla presunta ingerenza del ministro dei Beni culturali. Per le due signore il giudizio di un filosofo, in quanto ministro, è una ingerenza. Avrebbero dovuto tacere, dunque, anche Benedetto Croce e Rosario Assunto, e forse anche Gramsci e Luciano Anceschi? Perché il dibattito non è consentito? Se un ministro è ignorante, perché è ignorante; se è colto, perché è ministro. Così si invoca, con la libertà dell'artista, anche la libertà del critico, fingendo di non sapere che se «l'arte non può più essere lineare perché il nostro mondo non è più lineare, ma polifonico e contraddittorio», questo vale anche per la critica, che è sempre più tendenziosa e arbitraria (e sempre meno originale e temeraria). Dunque, al primo sussurro del Buttiglione, le due dame rispondono: «Decidiamo noi cos'è l'arte». E perché proprio loro? Perché non Jean Clair o Robert Hughes? Soltanto perché per un anno hanno avuto l'incarico? Ma invece di stabilire chi ha diritto a parlare, o chi ne ha i titoli, come pretende, con cipiglio accademico, Renato Barilli (in questo caso, per dignità accademica, perché dovrebbe avere più titoli Bonito Oliva di Buttiglione?), guardiamo cosa hanno fatto le due curatrici.
Imperdonabile appare, nella mostra «L'esperienza dell'arte», ai Giardini della Biennale di Venezia, quella inanimata, la presenza dissonante di un grande maestro come Francis Bacon, in una sala con alcuni bei quadri, in sequenza con quelli di maestri come Tapies e di speranze come la Dumas. La seriosa curatrice, Maria de Corral, in una idea di immortalità dell'arte, ha ignorato che Bacon è morto, e che la Biennale ha come compito istituzionale di documentare l'arte attuale, «contemporanea» appunto, senza ovviamente escludere che a un grande del Novecento si possa dedicare un omaggio, solitario e distinto. Ci sono buone speranze che, nelle prossime edizioni, siano esposti dipinti di Caravaggio o di Mantegna, per alcuni versi «contemporanei». Appare, altresì, evidente che la scelta di Bacon è una sottile e indispettita risposta alla grande monografica che il Comune dedica a Lucian Freud, ignorato dalla Biennale nonostante la perfetta coincidenza di apertura delle mostre. Sarebbe come se al Festival del cinema venisse proiettata in concorso la Passione di Giovanna d'Arco di Dreyer, ignorando l'ultima opera di Ingmar Bergman o di Spielberg, presenti a Venezia con le loro ultime pellicole in una multisala o in un cinema d'Essai. D'altra parte sarebbe stata concepibile una Biennale, negli anni della maturità di Tiziano, verso il 1560, che ignorasse il vecchio maestro ed esponesse dipinti dei defunti Bellini e Carpaccio? Questo avviene oggi. Il grande Freud, premiato dal mercato, come aveva, in suo soccorso, raccomandato Andy Warhol, non viene neppure calcolato per un Leone d'oro alla carriera. Forse sarà esposto, da morto, in una delle future Biennali.
Una divertente caricatura di quello che si immagina debba essere una Biennale è la sezione dell'Arsenale: quella spompata. Il temperamento festoso e comico della curatrice Rosa Martinez, che pensa alla Biennale come a una festa mobile, in compagnia di Hemingway ubriaco tra Pamplona e l'Harry's Bar, innesca piccole provocazioni per stupire «sempre un po' più lontano», con le testimonianze di una quotidianità insoddisfatta o irrisa, dalla batteria di stoviglie dell'indiano Gupta, al lampadario di assorbenti di Joana Vasconcelos, ai video erotico-comici imballati in scatole di cartone. Nonostante l'atmosfera da circo, anche qui non manca il morto, garante ordinario, non diversamente da Laura Belem, nata nel 1974, della lontananza di questa Biennale da tutto ciò che abbia a che fare con una verità, un sospiro, una parola che non sia «gioco», o «battuta»: Samuel Beckett, serissimo, impietrito, morto a Parigi nel 1989. Ma Rosa Martinez ride, si diverte, aspetta la prossima festa, non crede che una cosa sia diversa dall'altra. Tutto è uguale, meccanico, facile, e se si vuole che sia drammatico basta dirlo. In realtà ciò che desidera, per noi e per sé, è ritornare a Buenos Aires, in un giorno qualunque, per un invito di Sergio Vega che ci faccia tornare nel giardino dell'Eden. Naturalmente parlando di cose serie e della dittatura militare, perché divertirsi non basta. Occorre sempre e comunque fingere di essere impegnati. Alla fine la Biennale, da qualunque parte la si guardi, appare povera, inadeguata, insufficiente a se stessa, il fantasma di quello che avrebbe potuto essere.

Con il rimpianto di essere meno giovani, noi e anche le eterne ragazze Rosa e Maria.

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