Il film del weekend: "Il figlio di Saul"

Un'opera prima intensa che, grazie a scelte registiche radicali e rischiose, è diversa da tutte le pellicole sull'Olocausto che l'hanno preceduta. Probabile Oscar per il miglior film straniero

Il film del weekend: "Il figlio di Saul"

Il film rivelazione all’ultimo Festival di Cannes, dove è stato insignito del Gran Premio della Giuria, "Son of Saul" dell'esordiente ungherese Làszlo Nemes, esce nei nostri cinema fresco della vittoria del Golden Globe come miglior film straniero e della candidatura, nella stessa categoria, ai prossimi Oscar. Ambientato in un campo di concentramento, è un dramma sull'Olocausto diverso da tutti quelli visti finora sul grande schermo: mai pietistico o retorico, riesce invece a essere profondamente commovente con un approccio originale e insolito. E' un'immersione cupa e indimenticabile nella sofferenza e nella disumanità che conobbero i prigionieri dei lager. Auschwitz, 1944. Saul Ausländer (il debuttante Géza Röhrig) è un ebreo-ungherese che fa parte dei Sondekommando, collaboratori reclutati dai nazisti tra gli ebrei internati, ai quali è affidato il compito infame di fare da assistenti nello sterminio dei prigionieri. Un giorno, nella catasta dei corpi di ritorno dalla camera a gas, crede di riconoscere il cadavere del figlio. Tenta allora l'impossibile: dare al ragazzo una degna sepoltura. Per farlo dovrà sottrarre le spoglie, trovare un rabbino per officiare il rito e, se necessario, voltare le spalle ai propri compagni di manovalanza e ai loro piani di ribellione e di fuga.

Questo gioiello potente e disturbante è stato girato in soli ventotto giorni e nasce dalla lettura di un libro, edito in Italia col titolo "La voce dei sommersi", che raccoglie gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Non è un film destinato a piacere a chiunque, anzi. La sua asciuttezza estetica e il rigore formale rendono meccanico e monocorde il racconto, il che potrebbe sortire il malaugurato effetto, in parte del pubblico, di condurre alla noia anziché al turbamento. La scelta registica di ritrarre i particolari di quell'orrore con distacco e con una naturalezza devastante, in realtà vuole amplificarne l'abominio: indica come all'inferno ogni traccia di umanità o empatia sia percepita come minaccia per la sopravvivenza.
La telecamera segue il protagonista, che con la sua ics rossa disegnata sulla giacca ha un bersaglio sulla schiena che non lo fa mai perdere di vista allo spettatore come ai suoi aguzzini. Stretti per tutto il film in un formato 4/3 e nella parziale soggettiva di quanto visto da Saul, ci sentiamo imprigionati con lui in quella dimensione angusta che limita nei movimenti e nella vista: una situazione claustrofobica e paralizzante che costringe a tenere continuamente desta l'attenzione per percepire cosa accade fuori campo.

Se il ragazzo deceduto sia davvero il figlio di Saul ha poca importanza. Quel che conta è che rappresenta per il prigioniero l'occasione di mondarsi dal senso di colpa di aver fatto da aiutante ai carnefici nazisti. Nell'ossessiva ricerca di poter compiere un unico atto di pietà, la sepoltura religiosa di quel corpo, Saul riscatta tutti gli altri cadaveri che, chiamati "pezzi", vengono smaltiti come immondizia. Quella missione, per quanto tra l'utopico e l'insensato, gli serve a rimanere in vita in un luogo che è il trionfo della morte.

Encomiabile la cura con cui, come in una macabra sinfonia, vengono alternati intensi e indecifrabili primi piani del protagonista a scorci veloci e volutamente sfocati sugli orrori che, incalzanti, avvengono attorno. Se sarà Oscar lo scopriremo, intanto godiamoci che un siffatto talento registico si sia rivelato già alla sua opera prima, andando ad arricchire la settima arte.

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