FUREDI: «La stagione dell’intellettuale debole»

«L’attuale tendenza psicologica esige che a nessuno, fin da bambino, sia chiesto un alto impegno del pensiero»

FUREDI: «La stagione dell’intellettuale debole»

Che fine hanno fatto i bambini malinconici? Spariti. Tutti risucchiati nel buco nero della psicoterapia, e impossibilitati a essere se stessi. Beninteso, esistono ancora, ma il loro nome è «bambini depressi» e non possono attardarsi a guardare un tramonto con languida stupefatta tristezza senza scatenare nei genitori un’apprensione paranoica.
Dove sono finite le piccole pesti? Sparite. O meglio: corrono qua e là ancora vive e turbolente, ma meglio conosciute come «bambini iperattivi» o «con disordini dell’attenzione». Pertanto suscettibili di essere sottoposti ad adeguata terapia. Insomma, non ci sono più attitudini o difetti o semplici difficoltà del vivere, ma solo «disturbi» più o meno gravi: nei bambini e peggio ancora, con esiti più deleteri, negli adulti.
Pure il senso di colpa si è volatilizzato: quello che una volta era un sentimento sgradevole ma istruttivo, che indicava la coscienza di doveri morali, delle idee di giusto o sbagliato, e costituiva un passo importante nel processo di socializzazione, oggi viene visto come una patologia che, rendendo infelici, impedisce agli individui di coltivarsi senza render troppo conto di sé e dei propri comportamenti.
Di questa pervasiva cultura terapeutica discuteva il sociologo Frank Furedi una manciata di anni fa nel suo fondamentale saggio Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli, pag. 294, euro 25). Dello stesso autore esce ora nelle nostre librerie un secondo provocatorio libro, portatore di un’altra domanda inquietante: Che fine hanno fatto gli intellettuali? (Raffaello Cortina, pag. 216, euro 13).
Al pari dei bambini tristi e di quelli ribelli, essi hanno subito una forte omologazione di visioni e sentimenti. La differenza, in questo caso, è che gli intellettuali hanno risposto con una remissività sbalorditiva.
«Il loro maggior problema - dice Furedi - è stato abbracciare un modo di essere conformista e tutto votato alla contingenza. Molti pensatori hanno rivolto la loro attenzione al passato e al presente, evitando di guardare al futuro. Hanno adottato il modesto ruolo di interpreti delle mode».
Mentre invece non avrebbero dovuto allontanarsi dalla loro peculiarità di elementi innovativi, pronti a mettere in discussione l’ordine stabilito: gli intellettuali vivono per le idee e non di esse, scrive Furedi nel suo pamphlet. E aggiunge: «Può sembrare un comportamento disperatamente idealistico, ma è quello che ha ispirato milioni di persone negli ultimi secoli, e ha permesso a molti di intravedere alcune possibilità creative dietro le misere realtà della vita quotidiana».
Una delle cause di questo declino intellettuale è quella che Furedi chiama «politica dell’inclusione»: non si può escludere né lasciare indietro nessuno. Per ottenere questo si abbassano sempre di più gli standard. Programmi di istruzione superiore e mass media hanno una tendenza generale a trattare le persone come se fossero incapaci di comprendere argomentazioni che potrebbero mettere alla prova le capacità di un ragazzino sveglio di dieci anni.
«Ma questa tendenza non è sociale - spiega Furedi - quanto terapeutica e psicologica. La politica dell’inclusione vuole che ognuno sia riconosciuto e mai offeso da nulla, nemmeno dall’esistenza di standard elevati. Questo perché i suoi sostenitori hanno aspettative molto basse verso le persone, soprattutto riguardo i bambini. Credono che pretendere da loro un attivo impegno d’intelletto, un’aspirazione al meglio, possa minarne il benessere emotivo. Credono che le emozioni degli individui debbano essere gestite indirizzandole a qualcosa che loro conoscono meglio. È così che l’affermazione del sé sottomette l’educazione. Ma ricompensare il merito significa trattare le persone come adulti, mentre far sparire per magia il senso di fallimento risponde al desiderio di trattarle come dei bambini».
Eppure oggi tutti i media sono bulimici di idee forti, che danno un breve shock nervoso alla discussione ma che non nutrono. C’è questa dipendenza da idee forti, ma lo stile di vita di chi le propugna ne rimane però distante: quando si tratta di pagare per esse, o agire in conseguenza a esse, tutto l’Occidente si mette al sicuro nell’inerzia della parola e dell’infinito chiacchiericcio. C’è questa irreversibile separazione tra idea e vita. Quasi il dramma della postmodernità...
«È interessante notare che la società è continuamente alla ricerca della Grande Idea. Molte città organizzano festival e promuovono “idee”. Peccato che queste sono vissute in un modo davvero strumentale. L’Europa trova molto scomoda la nozione di verità e rifiuta di prendere cognizione di coloro che hanno una visione forte delle cose, come i fondamentalisti. E se la verità è percepita come un anacronismo, anche le categorie morali di bene e male finiscono con l’avere un’esistenza debole. Ed ecco che politiche sociali sono promosse in base alla loro aderenza alla realtà piuttosto che in base al fatto di essere davvero buone».
L’uomo occidentale oggi non crede in nulla. Partecipa a un sostanziale nichilismo, pur ritenendosi la punta di diamante dell’evoluzione. In qualche modo è sinceramente contento. Qual è il suo pensiero circa questa contraddizione?
«Non sono sicuro che l’uomo oggi sia davvero contento. Il dato certo che molte risorse vengono spese per realizzarla, indica che il nostro essere felici consiste solo in un’elusiva comodità. L’ascesa dell’immaginario terapeutico mostra che guardiamo alla condizione umana come a un continuo smarrimento emozionale. Abbiamo molte credenze, ma non più quella - fondamentale - che solo la consapevolezza possa orientarci attraverso la vita».
C’entra forse una deriva del professionalismo? Oggi tutto viene deputato al «parere» di professionisti. Ne deriva una medicalizzazione costante di ogni aspetto della vita. Si perde la capacità di ascoltare il proprio corpo, il proprio pensiero. E per di più tutto diventa commercializzabile.
«E come conseguenza si ha un collasso nervoso. Due delle correnti più regressive del nostro tempo sono la professionalizzazione e l’omologazione della vita di tutti i giorni. Ogni aspetto dell’esperienza umana è diventato target di interventi di esperti che ci dicono come amare, come provare dispiacere, come crescere i figli, come decorare la casa. Anziché avere relazioni libere tra persone siamo incoraggiati a mettere in mezzo una terza parte. Il risultato è che le relazioni diventano transazioni».
Una tragica banalizzazione dei rapporti, pari soltanto a quella degli argomenti che i media ci sottopongono in continuazione...
«È vero che le élites culturali europee tendono a infantilizzare le persone.

Ma la nostra è un’epoca aperta al cambiamento: se costruiamo senza perder tempo una prassi intellettuale basata su un robusto umanesimo, sono sicuro che è possibile ispirare una parte importante della società a prendersi maggiormente sul serio».

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