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FURET Contro tutte le rivoluzioni

FURET  Contro tutte le rivoluzioni

Che François Furet, scrivendo quel che ha scritto sulla Rivoluzione francese e sul comunismo, abbia suscitato controversie e polemiche feroci ancora negli ultimi decenni del secolo scorso, è un segno inequivocabile di quanto potente e resistente sia stata l’utopia rivoluzionaria. A quasi due secoli dal 1789, infatti, si sarebbe potuto presumere che quelle tesi fossero già da tempo diventate senso comune. E invece non lo erano diventate affatto: perché per riuscire a capirla davvero, la rivoluzione, la coscienza occidentale ha dovuto aspettare che fallisse. E insieme alla coscienza occidentale ha dovuto aspettare anche Furet, che, comunista dal 1947 al 1956, all’idea rivoluzionaria fu tutt’altro che insensibile.
L’età contemporanea la si può affrontare da tanti lati, e definire in tanti modi: i fenomeni di globalizzazione, il predominio dell’Occidente, i processi di trasformazione economica. Personalmente resto convinto che sia proprio la comparsa dell’utopia rivoluzionaria - ovvero della convinzione che il mondo possa essere rifatto da cima a fondo sulla base di un progetto razionale, così da edificare il paradiso in terra - a rappresentarne il vero carattere fondante. Se così è, se la contemporaneità coincide con la rivoluzione, allora François Furet è stato uno di quelli che meglio ne hanno colto il carattere e scritto la storia.
Costruita in un dialogo serrato con Alexis de Tocqueville e Augustin Cochin, l’interpretazione furettiana del 1789 è stata doppiamente antimarxista. In primo luogo perché del marxismo lo storico francese, seguendo l’autore della Democrazia in America, ha rigettato le dicotomie fondanti, sostituendole con una dicotomia differente - e liberale. La Rivoluzione ha smesso così di essere un fenomeno di classe e al contempo il segno di una discontinuità profonda, l’evento che marca il passaggio traumatico dalla società aristocratica alla società borghese, prefigurando il passaggio ulteriore verso la dittatura del proletariato. Ed è stata invece collocata su un terreno del tutto diverso dal marxista, quello dei rapporti fra Stato e individuo, sul quale con un’acrobazia solo in apparenza paradossale è diventata un momento importante di continuità, e non di rottura, con l’Antico Regime: il momento culminante di un processo di atomizzazione che già l’assolutismo aveva cominciato, e che distruggendo ogni struttura sociale intermedia ha lasciato l’individuo nudo e solo di fronte allo Stato. Un passaggio, insomma, di un lungo e profondo processo di democratizzazione che ha interessato i rapporti fra potere pubblico e cittadini ben più di quelli fra le classi sociali. E che Tocqueville riteneva massimamente pericoloso per la libertà.
Metodologicamente antimarxista, poi, Furet lo è stato perché, seguendo in questo caso Augustin Cochin, ha dato credito alla dimensione politica e ideologica della rivoluzione: la «sovrastruttura», insomma, non soltanto resasi autonoma dalla «struttura», ma diventata ben più importante di essa. La Rivoluzione si presenta così soprattutto come invenzione di un discorso politico nuovo, creazione di visioni del mondo e palingenesi sognate: discorsi, visioni e sogni che non sono certo del tutto distaccati dal mondo degli interessi concreti, ma che rispetto a esso rimangono tuttavia largamente indipendenti.
La «riscoperta» del politico, della sua specificità e autonomia, cui Furet ha dato un contributo certamente fondamentale ma alla quale hanno collaborato in molti nell’ultimo trentennio del ventesimo secolo, ha avuto conseguenze tanto intellettuali quanto politiche che sarebbe difficile sopravvalutare. Nel mondo della riflessione ha trasformato profondamente la percezione di un’infinità di fenomeni storici - dalla Rivoluzione francese, appunto, al Cartismo inglese; dalla Grande Guerra al fascismo -, risvegliando l’attenzione degli studiosi per aspetti di quei fenomeni ch’erano sempre stati sotto il loro naso, ma che essi non erano mai riusciti a vedere. Ha fatto giustizia di tante valutazioni ideologiche e sommarie, di tante spiegazioni che erano state date prima ancora che si cominciasse a ricercare.
Da un punto di vista politico, il rifiuto del rapporto necessario fra «struttura» economica e «sovrastruttura» istituzionale e ideologica rappresenta nientemeno che la negazione del marxismo in quanto progetto di trasformazione integrale dell’esistente. Se i rivoluzionari non sono i rappresentanti di alcuna «necessità» storica, se non sono l’avanguardia di nessuna «classe generale», allora la loro azione - e la loro violenza - perdono qualsiasi ancoraggio a una legittimazione superiore, per diventare strumentali unicamente alla loro brutale volontà di potenza. Il concetto marxiano di falsa coscienza si rivolta contro Marx: tutte le coscienze sono arbitrarie, ivi inclusa quella dei rivoluzionari.
Si capisce come, distaccatosi tanto radicalmente da una visione comunista del mondo, all’indomani della caduta del Muro Furet, col suo Passato di un’illusione, abbia voluto rivolgere la propria attenzione al totalitarismo sovietico. Soffermandosi così, dopo aver studiato come nel 1789 entrò nel mondo il sogno della palingenesi, sul rilancio in grande stile di quel sogno che avvenne con la prima guerra mondiale e il 1917. Non per caso, considerato come aveva concettualizzato in precedenza la passione rivoluzionaria, del comunismo - ma anche del fascismo e nazismo - lo storico francese sottolineò con forza la deriva nichilistica: il fallimento di un’ideologia che sperava di avere un rapporto solido con la materia e con la storia, ma non lo aveva affatto, e finì per legittimare gli appetiti di una «nuova classe» di professionisti dell’utopia.
Scrivendo dopo il 1989, François Furet parlava di un mondo che era ormai finito, ma che lasciava dietro di sé un cumulo smisurato, e pestilenziale, di rifiuti intellettuali.

A dieci anni dalla sua scomparsa è ancora più evidente quale contributo egli abbia dato alla rimozione di quelle macerie.

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