Politica

GABBIE SALARIALI/2 Il lavoro ha bisogno di libertà

Quando cammini da Nord a Sud quello che senti è la paura. È il sentimento più forte, con questa incertezza all’orizzonte, la crisi che piano piano consuma la voglia di spendere e il futuro sembra un gioco d’azzardo. È questa paura che riporta al centro della politica le due questioni, quella meridionale e quella settentrionale. Le strade del Sud mostrano lo scheletro di troppe fabbriche vuote, il lavoro manca e come al solito c’è molta gente che tira a campare. Si arrangia e spera nei vecchi vizi, nei soldi a pioggia sprecati male, finiti nelle tasche di chi ha fatto del commercio politico una professione. Senti i lamenti e ti accorgi che le sanguisughe di denaro pubblico tornano ad avere sete. Quello che manca al Sud sono le imprese, strozzate da mafia e camorra, dai crediti che non arrivano, dalla Salerno-Reggio Calabria e dagli operai polacchi che lavorano meglio e costano di meno. Il Nord guarda tutto questo e pensa che non vuole farsi tirare giù, teme la palude, la forza di gravità dell’altra metà del Paese, soprattutto ora, con la crisi al collo.

La Lega qualche volta sbaglia le parole. Il Nord e il Sud non hanno bisogno di gabbie, ma di liberare il lavoro e il salario, di non far cadere tutto dall’alto, di non ridurre tutto a una concertazione dirigista. E questo lo sanno anche Bossi e Calderoli, anche se quando sparano alto l’obiettivo sono gli interessi del Nord. Sotto, sotto le parole, c’è però un problema serio. La busta paga, al Nord, pesa di meno. Il costo della vita si mangia in fretta tutto e la fine del mese è più lontana. Lì, su a Settentrione, il lavoro c’è, ma ci campi a fatica. Giù, verso Sud, quello che manca è proprio il lavoro, e ci campi anche peggio, arrangiandoti, appunto. Il problema per tutti e due è che i soldi sono pochi.

La cosa più semplice da fare è ridurre tutte le tasse e gli oneri sociali che si mangiano il salario, ma a quanto pare i conti pubblici di questo Paese non se lo possono permettere. Sarebbe la via maestra, ma è stata chiusa da secoli di spesa pubblica troppo allegra. Quello che si può fare è premiare chi lavora tanto e bene, legando il salario alla produttività e al rischio. C’è un’intera generazione, per esempio, che ha accettato la flessibilità, che vive di contratti. È gente che porta sulle spalle lo stesso rischio degli imprenditori. Ed è un paradosso che vengano pagati meno di chi è garantito. La flessibilità è una risorsa che le imprese italiane devono cominciare a pagare. Il coraggio non è a costo zero. È in questo scenario che le ragioni della Lega hanno un senso. È la scelta di dire che il salario non è un monolite uniforme, ma si può contrattare azienda per azienda, territorio per territorio, situazione per situazione. È la metamorfosi del sindacato, che non può più comportarsi come un partito politico o un’azienda di servizi, ma deve tornare a far sentire la sua voce lì dove serve, vicino a chi lavora, con intelligenza. Nord e Sud non sono la stessa cosa. Il Nord vuole continuare a sentirsi ricco, il Sud deve creare lavoro. E le buste paghe possono anche essere diverse. Ma tutto questo non può arrivare dall’alto, con un firma: a Matera si guadagna tot, a Milano un tot di più. Tutto questo va contrattato. Il lavoro, appunto, non ha bisogno di gabbie, ma di libertà. È qui che la Lega ha usato male le parole.

Gli italiani, soprattutto quelli più giovani, conoscono la parola flessibilità. Hanno imparato a muoversi nella giungla dei contratti atipici. Ed è assurdo che gli altri, sindacati e confindustria, welfare state e ammortizzatori sociali, siano rimasti ancorati al Novecento, a quel mondo dove tutto era rigido, dove la vita si muoveva lungo una strada ferrata. Il rischio fa parte del gioco.

Benvenuti in questo secolo.

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