Gatto, Volpe e Riccio il segreto della Samp

(...) in dolcezza ed umanità dei tre pilastri doriani, una specie di piccolo zoo blucerchiato.
Del Riccio, Gigi Del Neri, come gioca si vede ogni domenica. Come la pensa e che valori ha si è capito subito. Primo: non si vergogna a pensare che Dio, patria e famiglia siano valori e non disvalori e non si dichiara cattolicissimo sfoderando in panchina tutte le bestemmie esistenti in natura. Secondo: chiede rispetto e lo dà, che credo sia una lezione di vita universale.
Del secondo, la Volpe, Beppe Marotta, c’è ormai poco da dire. Io, ad esempio, confesso che travolto da furore antinovelliniano e disgustato dal gioco della sua ultima Sampdoria (fra l’altro, sia a Torino che a Reggio Calabria Walter sta dimostrando di aver abbondantemente finito il suo ciclo) non ho alcun problema a fare atto di dolore e a dire che mi pento e mi dolgo con tutto il cuore per averne chiesto le dimissioni anni fa. Sbagliai e mi scuso. Il suo lavoro è sotto gli occhi di tutti. E Marotta si dimostra anno dopo anno sempre più Volpe. Con un ulteriore bollino di merito, il «non lo conosco» di Josè Mourinho.
Il terzo, Duccio Garrone, è il Gatto. Nel senso che è bisognoso di fusa. Ma che è capace anche di ricambiarle, come nella bellissima intervista al Corriere della sera di ieri, in cui ripeteva peraltro molti concetti espressi allo stesso giornale il 18 maggio 2003. Due interviste in gran parte sovrapponibili, a tratti quasi in fotocopia. Dall’impegno per l’associazione Mus-e, che si occupa dell’inserimento dei bimbi immigrati, alla struggente confessione sulla «ballerina bellissima e bravissima che s’è ammalata gravemente e aveva bisogno di cure urgenti che stiamo provando, passo dopo passo, a far tornare la ballerina bellissima e bravissima di qualche tempo fa», metafora di una storia personale del presidente, prima ancora che doriana. Fino al ricordo di un episodio familiare: «Mio padre Edoardo mi ha insegnato il rigore e la severità soprattutto con se stessi. Una volta, per Natale, mi regalò un arco con le frecce. Fuori faceva freddo e io non sapevo dove tirare. Lo utilizzai in cucina, di nascosto, disegnando un cerchio su uno degli scuretti della finestra. Quando mio padre se ne accorse, prese arco e frecce e davanti a me li distrusse. Ci piansi sopra. Lui disse: “Avevi dato la tua parola e non l’hai rispettata“. Ho imparato la lezione. Le etichette non contano, contano serietà e parola data». Parole che avrei sottoscritto il 18 maggio 2003 e che sottoscrivo oggi. Parole che, a mio parere, sono uno dei segreti del primato. E lo dice uno che, spesso, non concorda con Garrone. A me, ad esempio, lo stadio non piace nè in porto, nè a ridosso dell’aeroporto. Ma «serietà e parola data», sì.
Potrei continuare con gli esempi. Potrei raccontare episodi umani dell’addetto stampa Alberto Marangon, talmente schivo che mi rincorrerebbe col bastone se li rendessi noti, capace anche di scegliere ottimi collaboratori al suo fianco come quelli di Samp Tv: da Federico Berlingheri, nostra vecchia conoscenza al Giornale, a Federica Ruggero, capace di rendere affascinante una tuta societaria.
Oppure, potrei ricordare la grande intelligenza, cultura e simpatia di Luca Castellazzi, la dimostrazione vivente che esistono campioni non ignoranti. Ma mi piace citare una frase di una bella intervista del viceCastellazzi Matteo Guardalben al Secolo XIX: «Vorrei che si ritornasse a riscoprire e praticare i veri valori della vita. Anche il saluto lo è.

Al mattino mi capita di entrare in un bar per fare colazione e vedere attorno a me persone che mangiano le brioches in silenzio, che bevono il cappuccino assorte nei loro pensieri. Mi piacerebbe riuscire a farle sorridere anche solo per un momento».
Poi, magari la Sampdoria non vincerà lo scudetto. Ma così ha già vinto.

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