Il ghiaccio non fa i conti con la matematica

Caro dott. Granzotto, ho letto sul Giornale, nella rubrica dedicata ai Lettori, a proposito di «La natura lavora e se ne infischia degli Al Gore», ho letto, dicevo, una Sua inesattezza: siccome sono Past Presidente della sezione valtellinese di Tirano degli Alpini, le posso documentare che novanta anni fa, nel corso della Guerra Bianca, la guerra più elevata per quota tra italiani ed austriaci, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale, durante un conflitto a fuoco, cadde dalla parete nord del S. Matteo il Capitano Berni, nel ghiacciaio sottostante, assieme ad alcuni valorosi alpini. Da allora non se ne è più trovata traccia, essendo spariti, inghiottiti dai crepacci. Ai tempi della Guerra Mondiale il ghiaccio c’era, e riducendosi di spessore di circa un metro l’anno ci restituirà uno ad uno i nostri soldati.


Prendo atto, caro Trimarchi, ma non capisco cosa cambia. Mi pare evidente che se le spoglie dei soldati della Grande Guerra riaffiorano dal ghiaccio che si sta sciogliendo, ciò vuol dire che dopo la loro morte se ne è formato dell’altro. Non si può infatti, né da vivi né da morti, insinuarsi in un ghiacciaio fino a farsene includere. Ghiacciai che vanno e vengono, qualcuno riducendosi e altri estendendosi, da centinaia di migliaia di anni, checché ne dicano Al Gore e tutti i catastrofisti. Ho già ricordato che in barba al riscaldamento globale la calotta del Monte Bianco è aumentata di oltre due metri passando, come massa, come volume di ghiaccio, dai 14.600 ai 24.100 metri cubi. In quanto al ghiacciaio della Brenva, quello all’imbocco del Traforo del Bianco e che a prima vista sembra essersi esaurito, senta cosa scrive il lettore Gabriele Barbino: «Non è vero che ne resti solo pietrisco. Le pietre sono la copertura - e protezione - di uno spessore di ghiaccio tuttora assai consistente. Si tratta, come i glaciologi possono confermare, di un «black glacier», ghiacciaio nero, appunto, perché ricoperto di scuri detriti, similmente al contiguo ghiacciaio del Miage».
La verità è, caro Trimarchi, che nella loro frenesia catastrofista i feddayn dell’ambientalismo si son fatti prendere la mano. Sparando dati, cifre e congetture prive di ogni seppur approssimativa base scientifica. O agitando, Al Gore più e meglio di tutti, «proiezioni matematiche» buone solo per farci su due risate all’osteria. Fra le più note proiezioni matematiche applicate all’ecologia è doveroso ricordare che all’inizio dell’Ottocento uno studio della municipalità londinese dava per scontato che nel giro di quarant’anni Londra sarebbe stata sepolta dal letame depositato sulla pubblica via dai cavalli in transito. Che nel 1908 il Conservation Movement americano aveva previsto una disponibilità di legna per 30 anni e di carbone per 50. Che nel libro The Population Bomb (1968) Paul Erhlich affermava che un quarto del genere umano sarebbe morto per fame nel decennio 1973-1983. Che in un celebre libro Jacques Cousteau dava il Mediterraneo per condannato, ridotto ad una pozza senza vita, entro l’anno 2000. Per tornare invece alle cifre sparate a casaccio, il primato spetta a Pecoraro Scanio, per scherzo del destino ministro dell’Ambiente, il quale arrivò a sostenere che dall’oggi al domani la temperatura in Italia - circoscritta esattissimamente entro i 9mila e 300 chilometri delle nostre frontiere per cui sarebbe sufficiente oltrepassare Chiasso per evitare di finire arrosto - era superiore di quattro gradi a quella media mondiale.

Però anche Al Gore non scherza quando afferma, beccandosi per questo il Nobel, che nel prossimo secolo il livello dei mari si alzerà di oltre sette metri (mentre perfino quei fregnacciari apocalittici dell’Ipcc, l’onusiano Intergovernmental Panel on Climate Change, stimano l’innalzamento in circa 30 centimetri).

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