«Il governo non distrugga le riforme del Polo»

Massimiliano Scafi

nostro inviato a Napoli

No, niente «equivoci», per carità, niente confusione di ruoli, niente patti segreti, accordi scellerati o ammiccamenti trasversali. E nemmeno inciuci. «Ciascuna forza politica - dice Giorgio Napolitano - deve fare la propria parte con chiarezza e dignità». Ma questo, avverte il capo dello Stato, non vuol dire che chi arriva al governo debba per forza «distruggere» quello che è stato fatto in precedenza. Non è detto che ogni volta che cambia il vento politico si rovesci il Paese come un pedalino. E quindi non significa che il centrosinistra sia autorizzato a buttare a mare, così, a prescindere, tutte le riforme del centrodestra. «A chiunque sia in maggioranza e governi - spiega il presidente - si richiede attenzione e sensibilità per le ragioni dell’opposizione. E, forse per non far pesare ancora le aspre contrapposizioni degli ultimi anni, è necessario assumere un metro di giudizio non distruttivo nel bilancio dell’azione di governo che si è precedentemente osteggiata». Vale anche per la Costituzione. Comunque vada a finire il referendum, «bisognerà tornare in Parlamento alla ricerca del più largo consenso». Lui, Napolitano, «garante neutrale e imparziale dei diritti di tutti», vigilerà.
A Napoli, a un mese dall’elezione, la prima visita ufficiale a una città del Principe Rosso. Caffè, sfogliatella e onori militari in piazza del Plebiscito, poi, nel settecentesco teatrino di corte del Palazzo Reale, il discorso, atteso e calibrato, di un capo dello Stato che invita al «reciproco riconoscimento» e al dialogo perché «il tempo di una democrazia matura dell’alternanza» è bello che suonato. Governare non vuol dire strapazzare l’opposizione, cambiare non significa cancellare tutto. E la minoranza, dal canto suo, deve essere pronta a «possibili convergenze nell’interesse generale». Musica per le orecchie della Cdl: era stato proprio Silvio Berlusconi, primo dei leader politici accolto in udienza al Quirinale dopo il voto di aprile, a chiedere garanzie e «copertura» a Napolitano. Ed ecco, alla prima occasione protocollare, che si apre l’ombrello istituzionale. Il presidente, che «auspica un confronto aperto e operoso tra le forze politiche», è preoccupato per «il futuro dell’Italia» e per «la peculiare gravità dei problemi da affrontare».
Perciò, questa è la noce del suo appello, «ognuno manifesti la propria identità e svolga il proprio ruolo», ma senza «trascurare quel che è davvero in gioco per tutti» e «guardando al futuro e alle generazioni più giovani». Insomma, bisogna «servire la causa comune». E questo «dialogo limpido e fecondo», c’è poco da fare, dovrà per forza di cose aprirsi pure sulla riforma della Costituzione. Un testo sacro, ma non intoccabile. Una tavola di valori, ma non un totem. «Chi fu impegnato nella sua gestazione - racconta il capo dello Stato - concorse a scolpirne i principi fondamentali e a volerla destinata a durare ma non immutabile, bensì rivedibile attraverso procedure di cui fosse parte la possibilità di un referendum confermativo».
Ritoccarla dunque si può. Forse, si deve. «In effetti - dice ancora Napolitano - nel tempo sono maturate esigenze di riforma su cui è prevedibile che si dovrà, qualunque sia l’esito del voto del 25 e 26 giugno, tornare in Parlamento, nella ricerca del più largo consenso». Da qui il forte invito ad andare alle urne: «Oggi mi sento di dover formulare l’auspicio di un’intensa e attenta partecipazione dei cittadini al voto. Troppo importante è la materia su cui ciascuno è chiamato a pronunciarsi, condivida o no, il contenuto della legge sottoposta a consultazione popolare». Quasi un dovere civico: «La scelta è in ogni caso estremamente impegnativa, trattandosi della Carta che ha costituito l’atto fondativo della nostra Repubblica, disegnando gli ideali e tracciando il cammino di una nazione nuovamente unita e salda nelle sue istituzioni».
In ballo, insiste, «c’è il futuro del Paese». Concetto sul quale torna in serata, dopo un giro delle librerie di Portalba e delle biblioteche storiche del centro e prima di un piccolo bagno di folla a Spaccanapoli. «Perché ho lanciato un appello al voto? Perché - risponde nel cortile della casa di Benedetto Croce, nel cuore dei Decumani - sarebbe stato molto strano se non l’avessi fatto. Intendiamoci, non perché ci sia il dovere legale o formale di partecipare al referendum o perché ci siano delle sanzioni per chi non va a votare».

No, niente di tutto questo: il motivo è che la Carta e il suo destino dovrebbe interessare tutti gli italiani. «Si tratta di una materia talmente importante che, comunque la si pensi, non andare a questo appuntamento sarebbe davvero non giustificabile».

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