La grande differenza che corre tra emigrati e clandestini

Carissimo Granzotto, tutti ormai conosciamo la tragedia degli immigrati e le problematiche di Lampedusa. Io avrei molto piacere di conoscere il suo pensiero su quello che viene detto, purtroppo, da molti eminenti personaggi italiani, compreso il nostro emerito Presidente della Repubblica, nel ricordarci che anche noi siamo stato un popolo di emigranti. Io che ho ormai ho... qualche anno ricordo quale era lo spirito della nostra emigrazione e non riesco a trovare somiglianze con quello che attualmente si verifica. Lei è in grado di placare il mio disappunto?
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Placare no, caro Mallegni. Mi verrebbe bene, però, esacerbarlo. Le manfrine terzomondiste e multietniche, multiculturali, multireligiose eccetera pivottano su due assunti: l’emergenza umanitaria e l’«anche noi, caro lei, siamo stati popolo di emigranti». Quest’ultimo assunto, il più fesso dei due, non significa e non giustifica niente. E questo perché noi fummo emigranti. Questi sono clandestini. C’è dunque una bella differenza. Gli Stati Uniti, terra di emigrazione se ce n’è stata una, per dissuadere i clandestini a intrufolarsi illegittimamente sono arrivati a erigere, al confine con il Messico, un vallo lungo 3mila 143 chilometri. La Spagna del compagno Zapatero va più per le spicce: spara. La Francia di Sarkozy li blocca fisicamente - e rudemente - ai valichi alpini. Per tutti, meno che per noi, vale il principio: o in regola, o fuori. L’altro assunto è il trionfo dell’ipocrisia. I massimi fornitori, al momento, di clandestini sono nazioni che grazie alla piazza hanno guadagnato - così è stato stabilito dalle supreme istanze internazionali - libertà e democrazia. Le migliaia di tunisini e egiziani che si riversano a Lampedusa non fuggono una oppressiva dittatura, non un regime liberticida che vieta- massima delle infamie - di chattare su Facebook o Twitter. Macché. Manca dunque a loro lo status di rifugiati, che spetta a chi è fuggito o è stato espulso dal proprio Paese a causa di discriminazioni politiche, religiose o razziali. Punto. Mancando quello, viene a mancare la condizione umanitaria dell’accoglimento. Che potrebbe riaffacciarsi prepotentemente se l’esodo fosse provocato da una micidiale carestia o da una guerra guerreggiata con pioggia di bombe e raffiche di Kalashnikov, tali da mettere a repentaglio la sicurezza dei civili. Ma non è il nostro caso. Terza causa dell’esodo potrebbe essere che a migliaia e migliaia di nordafricani i quali fino a ieri e ancorché sotto il tallone del dispotismo non ne avevano avvertito l’esigenza, s’è acceso il prepotente desiderio di andare a cercare fortuna all’estero. Aspirazione più che mai legittima e anche a elevato tenore civile, alla quale nessuno e noi per primi potrebbe opporre obiezioni. E che diamine, «anche noi, caro lei, siamo stati popolo di emigranti». Bene, lo facciano, allora. Facciano gli emigranti. Attenendosi alle regole, alle disposizioni, alle leggi e alle opportunità che regolano il flusso migratorio. In caso contrario, dietrofront. Abbiamo una flotta più che attrezzata per far rispettare le nostre leggi. Se poi ai porti d’arrivo dovessero fare storie, non li volessero indietro, i clandestini, bé, basta imitare Sarkozy. Mica ha chiesto il permesso, il presidente francese, per usare la forza in Libia. Mica si fa mettere i piedi in testa, lui. Né dagli States, né dall’Onu e né dal coro pacifista e umanitarista.

Va e bombarda. Non dico di arrivare a tanto, per carità. Sarebbe infatti sufficiente un approccio a muso duro per non farseli mettere, i piedi in testa (dove, attualmente, di riffa o di raffa ce li ritroviamo...).
Paolo Granzotto

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