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La Guerra dei 6 giorni che cambiò Israele

La Guerra dei 6 giorni che  cambiò Israele

Certi periodi del calendario hanno ovunque un senso magico. In Occidente sono i secoli e i millenni. Nel mondo ebraico è il 40 (oltre il 7) che detiene un contenuto mistico particolare. Noè galleggiò nella sua arca per 40 giorni; gli ebrei soggiornarono nel deserto per 40 anni; per 40 giorni Mosè digiunò sul monte Sinai per ricevere la Legge; Gesù per 40 giorni fu tentato dal demonio. Si trattasempredi periodi diesameedi prova, che coscientemente o no spiegano l’enorme interesse che solleva il 40esimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, iniziata il 5 Giugno 1967, terminata sul campo di battaglia l’11 e che continua con alterne vicende sino a oggi, dimostrando che è più facile vincereche saper usare della vittoria.
Nulla è più tragico della vittoria - dice Nietzsche - se non la sconfitta. Il conflitto palestinese lo prova dimostrandocomesi tratta non - come molti affermano credere - della lotta fra giusto e ingiusto ma fra due tragedie apparentemente irrisolvibili perché diventate simboliche. Anche in Israele si pensa che questo straordinario fatto d’armi sia, come scrive l’Economist, una «vittoria sprecata» che ha trasformato lo Stato ebraico da beniamino in Golia internazionale, il «maggiore pericolo alla pace del mondo» e la «peggiore» delle società in cui, secondo la Bbc, si può vivere, messa appena al di sopra dell’Irak.
È vero che entrambe le parti hanno grandi responsabilità nella incapacità di saper sfruttare le occasioni di pace. Ma si dimentica che alla vigilia della guerra non un israeliano viveva nelle zone poi occupate, che questa assenza non aveva fatto cessare gli attacchi arabi (con perdite superiori a quelle oggi causate dai missili palestinesi), che la vittoria israeliana, in risposta al tentativo nasseriano di distruggere lo Stato, ne ha garantito l’esistenza e lo sviluppo.
Nessuno sembra ricordare che 10 giorni dopo la fine dei combattimenti, il governo israeliano inviò alla Siria e all’Egitto la proposta di ritirarsi sui confini pre bellici - con l’eccezione di Gerusalemme - in cambio della pace; che la risposta della Lega Araba a Khartum, in settembre, furono i «no» al negoziato, al riconoscimento e alla pace; che senza questa vittoria non si sarebbe giunti alla pace con l’Egitto e la Giordania; che la Giordania sarebbe stata assorbita dalla Siria e dall’Irak e il riconoscimento arabo al diritto palestinese di avere uno Stato non sarebbe mai avvenuto. Lo sforzo israeliano a colonizzare le zone occupate in Palestina si è rivelato un errore politico, morale e storico. Ma l’evacuazione di Gaza dimostra la volontà di correggere questo errore (quanto sia difficile farlo lo dimostra il colonialismo europeo, quello cinese in Tibet, russo in Cecenia e arabo nel Darfur), mentre non è cambiato il sogno arabo di distruggere Israele.
La guerra ha profondamente trasformato Israele; provocato l’inizio della fine della paternalistica superiorità politica e sociale socialista-ashkenazita sugli immigrati di origine orientale; ha aperto la strada all’immigrazione ebraica dalla Russia e dall’Occidente; ha permesso la trasformazione del Paese da agricolo a post industriale. Allo stesso tempo due intifada hanno con fermato la realtà della nazione palestinese, assieme alla sua debolezza. Il problema, oggi, non è più quello di una intransigenza ideologica israeliana e palestinese.
Da ambo le parti si è convinti della necessità di convivere anche se ancora manca la volontà politica. È quello dell’emergere di un islam votato alla conquista di Israele baluardo dell’Occidente. Conquista a cui Israele è meglio preparato a difendersi tecnicamente e moralmente dell’Occidente, ma non è più isolato, nonostante gli sforzi dei suoi nemici - arabi e no - di metterlo in quarantena trasformando l’antisemitismo in anti israelianismo. Il giudizio della storia sulla «vittoria sprecata» dipenderà in definitiva dalla capacità di resistenza.
Illusorio credere che aspirazioni oppresse producano rapide soluzioni. Il Risorgimento italiano, quello irlandese, le crisi balcaniche, l’irredentismo basco, curdo, algerino e tamil lo dimostrano.

Non è illusorio credere che quando tutte le vie della violenza si rivelano, quella dell’indesiderato compromesso resta la sola strada da imboccare.

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