Politica

I burocrati dei Beni culturali

Mi piacciono gli originali argomenti offerti dal sindacalista Cerasoli della Uil e subito adottati sull’Unità da Maria Serena Palieri. Quest'ultima crede che io voglia nascondere qualcosa ai lettori del Giornale per un misterioso «conflitto di interessi», di cui io non ho percezione, perché non considero i torti fatti a me minori di quelli fatti agli altri. Ma non necessariamente ne parlo. Soprattutto se mi sembrano marginali rispetto ad altri più macroscopici. Anche se eliminare un candidato scomodo, quale certamente io sono, per un errore formale, desta qualche sospetto. D'altra parte, è un rischio che va messo in conto, se è vero che, dopo le polemiche sull'Ara Pacis, lo studio dell'architetto Manfredi Nicoletti, che mi indicava come consulente, non è stato ammesso al concorso per la risistemazione di Piazza Augusto Imperatore a Roma.
Così, sfidando il «conflitto di interessi», e deludendo la Palieri, ne parlerò proprio ai liberi lettori del Giornale. Nondimeno, fatte salve le questioni personali, continua a sembrarmi grave il disprezzo per il lavoro e per l'impegno di alcuni funzionari che hanno lavorato per anni come reggenti nelle Soprintendenze, dirigendo restauri, controllando il territorio, producendo mostre, e che sono stati bocciati, senza alcuna considerazione dei loro titoli scientifici e tecnici, all'ultimo concorso per dirigenti storici dell'Arte. Nei sindacalisti e nei giornalisti che li seguono, l'insofferenza per i meriti di chi ha lavorato sul campo, come Vittoria Garibaldi, Rossella Vodret, Franco Faranda, Agata Altavilla, Anna Mattirolo, Marzia Cataldi, e la prevalente passione per la burocrazia sono evidenti. E chiunque osi controbattere è accusato di trasformare la questione in «querelle politica». Non lo è, se non nel senso che ogni riflessione che riguardi il bene pubblico e, soprattutto, i Beni culturali, è politica.
Ora i sindacalisti e l'Unità si riaffacciano, rivelando ciò che io, pur tentato, non avevo voluto ricordare, proprio per evitare il caso personale. Che, come si sa, non temo di esibire. Ma non posso pretendere che, una scelta di prudenza sia, nel mio caso, compresa da l'Unità. Difficile resistere alla tentazione di evocare un luogo comune come il conflitto di interesse, perfino «nello scrivere», come accusa la Palieri. Difficile farle intendere che, all'indomani della mia esclusione dal concorso, qualche mese fa, il mio primo impulso fu scrivere un fondo per il Giornale, e che vi rinunciai proprio per non raccontare una questione troppo personale. Sbagliai. Perché, come insegna Montaigne, forse non abbastanza letto da Palieri e Cerasoli, l'umanità è fatta di casi personali; e, se voglio parlare dell'uomo, devo parlare di me stesso. Il seguito delle vicende del concorso, con ulteriori esclusioni e favoritismi, lo dimostra. La mia indignazione avrebbe avuto altri riscontri.
Non sarà forse sfuggito ai miei interlocutori che la mia certezza, più che convinzione, delle gravissime anomalie del mondo della giustizia, dipende anche dall'incredibile accusa per concorso esterno in associazione mafiosa, formulata contro di me e Tiziana Maiolo da alcuni magistrati di Catanzaro, e archiviata dopo otto mesi di furibonde polemiche con il commissariamento di quella Procura da parte di Pierluigi Vigna; e da una ingiusta condanna per assenteismo, essendo in aspettativa senza assegni, e lavorando per la catalogazione (tutta pubblicata) dei Beni artistici della Provincia di Rovigo, in seguito alla denuncia di un esponente della destra fascista di Padova. Per converso il ministero, nulla lamentando, manifestava il suo compiacimento per la mia attività e per la mia appartenenza all'amministrazione. Ancora una volta l'azione dei magistrati veniva indirizzata alla tutela della burocrazia e non considerava la sostanza dell'impegno di lavoro, compiuto integralmente senza percepire stipendio.
La truffa sarebbe stata, lavorando per la Provincia e per la Regione, conservare il mio ruolo di funzionario delle Belle Arti. Come ho dimostrato di volere, pur non avendone necessità, nei lunghi anni di parlamentare e anche ai vertici del ministero come Sottosegretario, e perfino ora come Assessore alla Cultura del Comune di Milano. Se tutta la vita si lavora per tutelare il patrimonio artistico dalle minacce di cattivi amministratori, non avendo mai al fianco i sindacalisti, che oggi protestano contro una brava funzionaria e contro un ministro che ne riconosce il merito, non si capisce perché, prestati alla politica, e con particolari nessi con la cultura, si dovrebbe rinunciare alla propria funzione originale, o addirittura «disprezzare un posto di dirigente ministeriale».
Proprio un Soprintendente come Paolucci, di cui parleremo, dopo essere stato ministro, tornò Soprintendente a Firenze. E risulta alla Palieri che avvocati, professori, magistrati e medici rinuncino alla carriera durante la loro attività politica? Partecipare a un concorso è una forma di umiltà e di rispetto di un lavoro, di cui quotidianamente riproduco il metodo e che so perfettamente riconoscere nei miei colleghi migliori, le cui qualità si manifestano nonostante la burocrazia deificata da Cerasoli e Palieri, i quali per difendere un concorso travolto dai ricorsi, tra i quali il mio, legittimano la mia non ammissione e in essa trovano la ragione della mia polemica, tentando con ciò di screditarne il significato. Come dire che io non avrei titolo a parlare per «conflitto di interesse». Dimenticano che il mio interesse nella questione è assolutamente formale, non avendo io né prospettiva né desiderio di tornare nell'amministrazione, di cui sono stato ai vertici come Sottosegretario, con un ruolo attivo; ma che, fino al momento, molto vicino, della quiescenza, ho ritenuto di dover dare seguito lineare alla «carriera», partecipando ai rarissimi concorsi che il ministero ha istituito.
Ecco allora la precedente domanda per il livello cosiddetto «C3 super», concorso interno superato nonostante l'errore formale che la Palieri ricorda e di cui io non ero a conoscenza. Ma, certo, ulteriore argomento per fortificare il mio ricorso per essere stato escluso, ora, per lo stesso errore. Ciò che mi irritò subito, convincendomi delle anomalie del concorso, che la nomina della Garibaldi da parte di Rutelli ha evidenziato, era proprio il formalismo burocratico, assolutamente privo di logica, e quindi emendabile con una semplice integrazione, che ha portato alla mia esclusione dal concorso. E infatti, mentre non si poteva pretendere da due commissari provenienti dal mondo universitario (uno dei quali, Fabio Benzi, molto vicino a me quando svolgevo la mia attività di Ispettore di Soprintendenza e lui, molto più giovane, era negli anni della sua formazione, seguendo appassionatamente il mio lavoro), proprio Antonio Paolucci, oltre a conoscere da sempre i miei studi, a essere stato mio Soprintendente a Venezia e a Verona e mio «dipendente» con mille questioni affrontate insieme quando io ero Sottosegretario, sa perfettamente che il documento comprovante l'anno di Specializzazione (il documento che non avrei presentato) è del tutto inessenziale e, di fatto, implicito, perché non si poteva essere ammessi al primo concorso che io vinsi nel 1976, con i complimenti dello stesso Paolucci, senza avere, oltre alla Laurea, un altro anno, il quinto, di corso di Specializzazione. Che io avevo frequentato, sostenendo otto esami.
La questione, dunque, è non la mancanza di un documento, come evidenzia il mio ricorso, ma che senza quell'anno di studio io non avrei potuto partecipare e vincere il primo concorso ed entrare nell'amministrazione del ministero. Come si vede, è una questione di lana caprina, la lana preferita da Cerasoli e Palieri, così affezionati a moduli e carte. Conta poco per loro aver lavorato, essere bravi, avere assunto funzioni direttive per le necessità dello Stato, dando e facendo esperienza, come tutti i bravi funzionari che ho sopra ricordato, loro sì ammessi, e poi bocciati. Certo sarebbe stato difficile per i tre commissari bocciare anche me, con soddisfazione di Cerasoli e Palieri. Per evitare l'imbarazzo, era meglio non ammettermi. D'altra parte ero io, e non Cerasoli o Palieri, a difendere Francesco Scoppola quando fu cacciato dalle Marche, avendo tutti i titoli regolari e burocratici per fare il Soprintendente regionale, ma avendo anche, contro sindaci e amministratori regionali, vincolato il Conero e il colle de l'Infinito.
Cosa volete che sia qualche villetta, per Cerasoli e Palieri, rispetto a un modulo? Ciò che piace, infine, è che, dopo anni e scandali e denunce sui metodi dei concorsi, essi siano oggi esaltati come esempio per i giovani. A noi piaceva di più ricordare i nomi dei non ammessi o dei bocciati ai concorsi. Quello di Giacomo Debenedetti, per esempio. O di Giorgio Colli. O di Massimo Mila. O, per uscire dai nostri confini, di Walter Benjamin.

Ma, dimenticavo, io sono dannunziano.

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