I cervelli di mezza età più in forma di quelli giovani

Oggigiorno viene dedicata molta attenzione alla giovinezza e alla vecchiaia, due categorie che fanno man bassa di servizi giornalistici, romanzi, film, ricerche scientifiche e di marketing e persino di iniziative di legge ad hoc. L'«età di mezzo», invece, è un po' trascurata. Quando se ne parla, poi, si tende a trattarla come una seconda adolescenza (si veda il filone cinematografico con i cinquantenni «bolliti» che si innamorano della ventenne di turno), vale a dire proprio il contrario della «maturità», oppure come una sentina di depressioni: è ormai famigerata la ricerca del Dartmouth College e della Warwick Business School condotta in 72 paesi, da cui è uscito che il picco massimo della tristezza psicologica si assesta intorno ai 46 anni, e comunque tra i 40 e i 50 anni.
Di conseguenza i «baby boomers», i figli del boom economico nati fino alla metà dei Sessanta, sono pieni di ansie per la «tenuta» biologica del proprio corpo e del proprio cervello. Ne parla Barbara Strauch in «I tuoi anni migliori devono ancora venire» (Mondadori, pagg. 264, euro 19,50). È un divertito saggio di seria divulgazione scientifica in cui vengono ribaltati molti luoghi comuni che vogliono i «maturi» sempre sulla via del tramonto, tra memoria che impercettibilmente si inceppa su informazioni banali e problemacci sessuali più immaginari che concreti, con sullo sfondo le nuove generazioni che - a un primo sguardo - se la cavano molto meglio di loro, come nel multitasking tecnologico.
Tuttavia la Strauch, ricerche alla mano, sostiene la tesi opposta. Uno studio americano a lungo termine, condotto negli ultimi 40 anni su migliaia di persone, ha rilevato che il cervello continua a svilupparsi per tutta la vita e che, in molte aree cognitive importanti, migliora con il tempo. Tra i 40 e i 60 anni, infatti, si sono rilevati punteggi superiori che nei ventenni nelle aree relative al ragionamento logico e alla memoria verbale: si diventa più bravi, insomma, a cogliere l'essenza di un problema (alla faccia dei golden boys della Silicon Valley) e a mettere in atto una strategia per risolverlo. Nelle corso delle ricerche sui giocatori di scacchi e di bridge si è appurato che, se il gioco dipende esclusivamente dalla velocità, i giocatori più giovani vincono, ma pure che, in una partita vera, i giocatori più anziani battono i giovani. Gli stessi risultati si sono ottenuti con i controllori del traffico aereo e piloti: i piloti più anziani erano migliori nel compito effettivo di evitare le collisioni tra gli aerei.
È vero che un po' troppo spesso capita di sentire una persona di mezza età lamentarsi di aver dimenticato nomi di persone o date di appuntamenti, ma - spiega la Strauch - si tratta di un'ansia ingiustificata: le dimenticanze occasionali sono dovute all'indebolimento di alcune connessioni tra informazioni arbitrarie dovuto al trascorrere del tempo (quando non utilizziamo un nome per un po'), e non certo all'invecchiare. Inoltre, il cervello umano era in origine programmato per attività più elementari come trovare il cibo e percepire i pericoli: le parti neurologiche per la gestione delle informazioni visuali-spaziali, infatti, sono le più primitive e la loro struttura robusta è fatta per durare. Ma il cervello non era certo programmato per ricordare i nomi di sessanta persone incontrate a un cocktail (al di là di là del numero di scotch e soda che ci si concede).

Così, sostiene la Strauch, i «maturi» possono stare tranquilli: hanno tutto il tempo di allenare le connessioni neuronali deputate ad attività più moderne, sfruttando vantaggi che i «giovani» non conoscono: l'esperienza, per esempio.

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