I pentiti della «no Tav»

Istruzioni per l’uso: dico sul serio, uso termini tecnici e non scherzo. Sto per raccontare una storia in cui ci sono un tavolo e quattro quaderni. I protagonisti della storia hanno completato tre dei quattro quaderni previsti (potenzialità della linea storica, analisi dei flussi di traffico e nodo di Torino), mentre uno, quello sulle varianti del tracciato, è ancora aperto e il compito non è finito. C’è chi sostiene che si debba tornare al tavolo per mettere a posto anche l’ultimo quaderno e chi, invece, si è già alzato.
Il problema è che questo resoconto di tavoli, tavolini e quaderni non si riferisce ai compiti dei miei bimbi, ma al problema che ha bloccato l’Italia per mesi: la Tav, i treni ad Alta Velocità e le tratte europee che dovevano passare per la Val di Susa.
Sì, proprio quelle per cui sono scese in strada a manifestare migliaia e migliaia di persone.
Sì, proprio quelle per cui arzille vecchiette e incolpevoli bambini sono stati portati in piazza, con tanto di barbecue al seguito e striscioni in cui «No Tav» era la variabile indipendente, quasi un ketchup aggiuntivo spruzzato di rosso, come il colore politico della maggior parte dei manifestanti, anche se nel simpatico popolo dei «no» non sono mancati sparuti gruppi di centrodestra.
Sì, proprio quelle per cui i sindaci dei Paesi della Valle di Susa, alta e bassa, hanno girato tutte le trasmissioni di approfondimento d’Italia come madonne pellegrine a reti unificate. Ce n’era pure una più carina di tanti nerboruti primi cittadini valligiani e quella faceva più audience.
Sì, proprio quelle che hanno regalato agli indignati speciali dei grandi quotidiani articoli epici in cui sembrava che i Davide-valligiani combattessero contro il Golia cattivo rappresentato dalla ferrovia, quasi una riedizione romantica della Locomotiva gucciniana, con il trionfo della giustizia proletaria, sia pure con la erre blesa, come conseguente conclusione. Abbiamo letto di tutto, compreso il racconto strappalacrime dei poliziotti cattivi del noto reazionario Pisanu, una specie di Bava Beccaris dei giorni nostri, che caricavano gli incolpevoli manifestanti. E fa lo stesso se molti di loro la Valle di Susa non l’avevano mai vista prima di quel momento ed erano gli stessi turisti da corteo di tutti i no: dal G8 di Genova al Dal Molin di Vicenza.
Ecco, tutta quella roba lì non era vera. Avevano scherzato. Come ha dimostrato ieri alla perfezione un bellissimo reportage di Alessandra Mangiarotti sul Corriere della sera, dove pure si erano esercitati alcuni dei poeti della protesta di cui sopra. Ad esempio, c’è Antonio Ferrentino, il sindaco che più di tutti si era esposto allora, che oggi spiega placido: «Anch’io non scenderei più in piazza. E centinaia di persone me lo vengono a dire: “Ho marciato, ora non marcerei”». Motivo: «Non possiamo condannare la valle alla marginalità». Piccolo particolare: se ne accorge oggi dopo che le marce della valle che non vuole essere condannata alla marginalità hanno rischiato di condannare (o hanno già condannato) alla marginalità tutta l’Italia e tutti gli italiani.
E quelli di Venaus? Ve li ricordate quelli di Venaus, che era diventata all’improvviso una nuova capitale italiana, un piccolo avamposto di civiltà contro la cattiveria del progresso, lo spartiacque fra i buoni valligiani e gli inquinatori cattivi pronti a far morire d’amianto intere popolazioni destinate alla scomparsa? Quelli di Venaus, tanto fantasiosi nell’immaginare il loro futuro, lo erano stati anche dal punto di vista linguistico-semantico: «Venauschwitz» dava l’idea della tragedia e del genocidio a cui sarebbero andati incontro meglio di qualsiasi altra dizione. Ecco, quelli di Venaus non sono più tanto convinti di essere a Venauschwitz. E il sindaco spiega: «Quel tunnel oggi continua a non servire. Ma non mi sento di dire che tra trent’anni sarà così. E la strada per capirlo non è più la piazza».
E poi tutti spiegano che senza la Tav la valle è isolata. Che senza la Tav non c’è più lavoro. Che senza la Tav questo splendido brandello d’Italia rischia di morire. Sono gli stessi, tutti gli stessi, che manifestavano allora.

E che spiegano di aver sbagliato, di aver seguito l’onda, di essere stati strumentalizzati. Metafore viventi di un Paese a bassa velocità.
Intanto, fra tavoli e quaderni, la ricreazione è finita.
Massimiliano Lussana

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