I racconti dei civili siriani rifugiati oltre confine

Tripoli del LibanoWahid ha conservato la pallottola che pochi giorni fa lo ha trapassato, entrando dalla schiena e uscendo dallo stomaco. La tiene avvolta in un fazzoletto di carta. Il ragazzo è steso in un letto di ospedale a Tripoli, porto libanese a pochi chilometri dal confine con la Siria. Ha 22 anni, è un operaio di Homs. Nella sua città, durante la notte tra domenica e lunedì, decine di civili sarebbero stati uccisi dalle forze del regime, accusano gli attivisti che hanno messo su internet video in cui compaiono cadaveri ammassati in una stanza, avvolti in coperte sporche di sangue.
Dall'altra parte, il governo del raìs Bashar el Assad, attraverso l'agenzia di stampa nazionale, ha lanciato una controaccusa. Il massacro di Homs, ha scritto Sana, sarebbe opera di «gruppi armati terroristici». Dall'inizio della rivolta siriana, nella primavera del 2011, il regime tenta di etichettare il dissenso come un complotto di estremisti religiosi e forze straniere ai danni di Damasco. Tra le corsie dell'ospedale di Tripoli, però, ci sono adolescenti e ragazzi poco più che ventenni, molti civili dei villaggi siriani lungo il confine feriti dai cecchini in strada o nelle proprie case dai colpi di artiglieria pesante.
Wahid porta ancora una fascia elastica attorno al torso, per contenere la ferita. Nel suo quartiere, Bab Amro, roccaforte dell'opposizione bombardata per quattro settimane dalle forze del regime, i soldati di Assad sono rientrati soltanto pochi giorni fa. Il ragazzo racconta di non essere uscito di casa durante l'offensiva per 28 giorni. La sua famiglia - come il resto della città - ha vissuto per settimane senza acqua corrente, elettricità e cibo. Ogni due giorni, soldati dell'Armata Libera Siriana, le milizie di disertori, passavano di casa in casa distribuendo un po' di pane e qualche scatola di sardine. «Il ventottesimo giorno - racconta Wahid, la barba corta e ben curata - i cannoneggiamenti si sono fermati, per poco, appena cinque minuti. Sono uscito per vedere cosa c'era fuori, e sono stato immediatamente ferito». Ora che sta meglio, il giovane vuole soltanto tornare a Homs, cercare la sua famiglia: «Non so dov'è, qualcuno mi ha detto che è riuscita a scappare nei villaggi della campagna circostante».
Wahid è stato portato a spalla oltreconfine da alcuni amici del quartiere. Hanno seguito le rotte del contrabbando: in uscita gli uomini trasportano i feriti, in entrata i rifornimenti medici e il cibo. Zaher ha seguito una strada simile, trasportato dagli amici a spalla attraverso le nuove vie di fuga per rifugiati, feriti, attivisti, disertori. «È arrivato in un mare di sangue», spiega Nour, attivista della Higher Commission for Syrian Relief, uno dei giovani che si occupano della clinica per feriti in arrivo dalla frontiera, due piani affittati in un ospedale pediatrico locale e sovvenzionato dalle donazioni di ricchi siriani.
Zaher è di Talkalakh, vicino a Homs. Ha due figli piccoli e una moglie con cui non comunica da quando è arrivato, dieci giorni fa. Sanno che lui è in Libano ma sono rimasti tutti in Siria. È stato ferito alla gamba destra da una mitragliatrice mentre camminava nel suo quartiere. «C'è stato un attacco - spiega - piovevano colpi di mortaio e artiglieria pesante». Prima di essere portato in Libano per essere curato, ha passato due giorni nascosto in un ospedale da campo, tirato su alla meglio dagli abitanti del villaggio.
«I feriti evitano in ogni modo gli ospedali pubblici e le strutture sanitarie statali - spiega Nada (nome di fantasia per questioni di sicurezza), 28 anni, dottoressa -. Gli uomini in borghese delle forze di sicurezza e quelli dei servizi segreti prelevano i feriti dalle corsie, li arrestano, li picchiano». Nada dice di aver visto con i propri occhi membri della shabiha, le bande in borghese legate al regime, colpire a morte con il calcio del fucile un uomo appena uscito dalla sala operatoria. La dottoressa, velo rosa sul camice bianco, è a Tripoli da 15 giorni. Prima che la Siria diventassse un campo di battaglia, lavorava in un ospedale pubblico di Homs. Poi, ha iniziato come volontaria negli ospedali da campo sorti nei quartieri bombardati. Fino a quando non ha ricevuto un telegramma dei servizi di sicurezza nazionali. Le chiedevano di presentarsi al quartier generale di Damasco.
«Ho capito che era il momento di scappare. Ho attraversato il confine con la mia famiglia, di notte, tra la polvere, a piedi».

Mancava soltanto suo fratello di 15 anni, portato via dagli uomini dei servizi segreti. Non sanno dove. A chi le chiede di descrivere la sua città, risponde: «La mia casa è stata rasa al suolo. Non c'è più qualcosa che si chiama Homs».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica