I due volti di Grasso pasticcione al Senato ma spietato col Cav

Sulla decadenza l'ex pm è stato un azzeccagarbugli. Ma sul Salva Roma è arrivata la reprimenda del Colle

I due volti di Grasso pasticcione al Senato ma spietato col Cav

Tra i senatori si dibatte se sia più scarso il loro presidente, Pietro Grasso, o la sua omologa della Camera, Laura Boldrini. Dopo undici mesi, i senatori si sono fatti un quadro di Pietro: è tra i presidenti meno capaci e neutrali che abbiano calcato la scena di Palazzo Madama. Cercano perciò di consolarsi pensando che a Montecitorio, con Laura, i deputati stiano peggio. Ma non c'è certezza. Anzi. All'inizio della legislatura, i senatori credevano di avere fatto un affare con Grasso, sessantottenne ex procuratore nazionale Antimafia e magistrato d'esperienza, rispetto ai deputati che si ritrovavano con la sprovveduta cinquantenne Boldrini proiettata dal nulla alla terza carica dello Stato. Un episodio dello scorso aprile durante le votazioni a Camere riunite per il Quirinale dà un'idea di quella sensazione di superiorità. Erano le ore tumultuose in cui nell'aula di Montecitorio furono bruciati Franco Marini e Romano Prodi e i grillini scandivano infantilmente Ro-do-tà, Ro-do-tà. Boldrini, che da padrona di casa dirigeva i lavori, era nel pallone e, tra un balbettio e un cincischio, il disordine dilagava. «Meno male che noi abbiamo il presidente Grasso», urlò Luigi D'Ambrosio Lettieri, senatore del Pdl, esasperato per l'insipienza boldriniana al punto da fargli apparire l'altro quasi un gigante. Grasso, che da ospite d'onore sedeva a fianco della presidentessa, rifiutò con la mano l'elogio che feriva la Boldrini, accompagnando però il gesto con un largo sorriso lusingato. Fu, tra l'altro, l'unica volta in cui si capì il fondamento di un sorriso di Grasso che ne inalbera di continuo a sproposito. Da allora, è passata diversa acqua sotto i ponti ed è probabile che il senatore D'Ambrosio Lettieri, abbia un'opinione meno idilliaca del suo presidente, tanto più come berlusconiano. Pesa, infatti, agli occhi del centrodestra quella che a Palazzo Madama è indicata come «la porcata di Pietro». Ossia, il complesso delle mene architettate dal presidente - che doveva invece incarnare la neutralità - nella vicenda della decadenza del Berlusca da senatore. Grasso è stato il motore che ha accelerato la cacciata del Cav, calpestando regole e tradizioni della Camera alta. Fu lui l'Azzeccagarbugli che, nell'autunno 2013, trovò l'espediente per decidere la decadenza a voto palese, contro il regolamento del Senato che prescrive il voto segreto se in gioco è il destino delle persone. È stato Grasso a inventarsi che, sul punto, il regolamento non era chiaro e che andava perciò riunita l'apposita Giunta per interpretarlo. Il regolamento era invece tanto esplicito che i grillini, i più accaniti a volere il voto palese, avevano proposto di modificarlo. A quel punto, per evitare le lungaggini e l'incognita del voto (segreto) sul cambio della norma, Grasso convocò la Giunta sventolando la presunta non chiarezza del testo, problema che nessuno, tranne lui, aveva sollevato. Insomma, proprio chi avrebbe dovuto tenersi sopra la mischia, aizzò la canea. Il seguito è stato un gioco da ragazzi. La maggioranza anti Berlusca della Giunta decise per il voto palese e Grasso partecipò con solerzia alla stesura della motivazione. È noto quale sia stata: la decadenza del Cav non riguardava «la persona» - per la quale era necessaria la segretezza - bensì la «composizione» del Senato. Come se il Senato fosse composto di non persone! Un mezzuccio - prologo della successiva decisione d'Aula di radiare il Cav - che misura perfettamente lo spessore umano di chi vi ha fatto ricorso. Questo scherzo di Grasso al Cav rientra nell'atteggiamento schizoide dell'ex magistrato verso l'ex premier. Nel 2006, Pietro divenne superprocuratore antimafia grazie al Pdl. La destra al governo lo favorì, contro il pm comunista Giancarlo Caselli, con una leggina trucco. A cose fatte, la Consulta dichiarò incostituzionale l'inghippo. Pietro, che ormai aveva incassato la nomina, disse: «Sono contento. Era una legge che non condividevo». Ma intanto ne aveva approfittato. Che lenza! Secondo i calcoli del Pdl, Grasso - che passava per moderato - doveva fungere da freno all'oscuro attivismo del mondo politico-giudiziario che maneggia i pentiti di mafia. Fu, invece, proprio lui a sostenere che, con le bombe del 1994, le coppole avevano agevolato la nascita di Forza Italia. Scatenata la polemica, disse di essere stato frainteso. In realtà, aveva parlato a vanvera come gli capita ogni due per tre. Qualche tempo dopo avergli dato la patente di mafioso, si mise invece a esaltare il Cav - sempre in una chiacchierata da bar, stavolta alla radio - come campione antimafia: «Gli darei un premio speciale. Con le sue leggi abbiamo sequestrato alla mafia beni per quaranta miliardi». Per giustificare queste mattane, si disse che Grasso stava cercando un ubi consistam tra sinistra e destra in vista di una sistemazione politica. Ha poi scelto il Pd che, miracolandolo, lo ha lanciato ai vertici della Repubblica. Pietro avrebbe diritto al sontuoso appartamento di servizio di Palazzo Giustiniani, dépendance del Senato. Lui però - o sua moglie, donna Maria Fedele, che pare abbia sul consorte totale influenza - ha rifiutato di abitarlo dicendo virtuosamente di non volere arrecare disturbo. Ma è solo abdicazione al ruolo. L'appartamento è comunque lì e le spese corrono egualmente. Va riassettato quando Grasso lo utilizza per ricevere ospiti, il personale - ci sia lui o no - è quello. Se ci abitasse ci sarebbe invece un risparmio sulla scorta babilonica che lo scorrazza dal Senato a casa sua. Una ventina di uomini (c'è chi dice 27), tenuto anche conto del suo passato all'Antimafia. Per chiudere sulle scarse virtù di Pietro alla guida del Senato, ricordo che, sotto Natale, è stato il capo dello Stato a rilevare le sue carenze. Alle Camere c'era la solita riffa per i decreti di fine anno, tra cui il cosiddetto Salva Roma. I senatori, profittando del clima sciistico, avevano infilato alla rinfusa emendamenti che c'entravano con la legge come cavoli a merenda. Napolitano, indignato, ha inviato alle Camere una lettera chiedendo serietà, pena il rifiuto di controfirmare il decreto. La missiva, estesa a Boldrini per dare l'idea di un discorso generale, era in realtà diretta a Grasso che, poco capendo dei suoi compiti, aveva tollerato il mercato boario dei favori.

Mentre Boldrini ha saggiamente chinato la testa in silenzio, Grasso, senza pudore, ha reagito: «Ma come... ma io... ecc...». È stato zittito da tutti. Così ha perso anche la gara con Boldrini e adesso è all'ultimo posto delle classifiche parlamentari.

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