Ben vengano gli scandali; con la loro luce livida illuminano e rendono visibile anche ai ciechi la realtà mostruosa che abbiamo costruito nella prima e nella seconda Repubblica. Gli ultimi dieci anni sono stati rovinosi, e la responsabilità massima è della sinistra, altro che governo-operetta di Silvio Berlusconi. Guardiamo i fatti e i conti. Nel 2001 ci fu l'unica riforma costituzionale degna di nota: la revisione del Titolo V voluta dal Pd, che al tempo aveva un altro nome, ma era della stessa pasta di oggi. La novità consisteva a grandi linee in una forte accentuazione del decentramento amministrativo, un trasferimento di poteri - quasi tutti - dal centro alla periferia.
All'epoca andava di moda il federalismo, di cui la Lega era promotrice. I progressisti, nell'intento di strappare a Umberto Bossi il diploma di «difensore delle autonomie locali» e di rubargli consensi, attribuirono a Comuni e Regioni il diritto di pesare più dello Stato a livello territoriale. Risultato, un disastro, uno sfacelo finanziario e organizzativo. Da quel momento la spesa pubblica - già folle - impazzì completamente: in dieci anni, solo quella regionale è cresciuta di 90 miliardi, esattamente la cifra che ha ingigantito il debito (causa delle oscillazioni isteriche dello spread) e ucciso il bilancio, ora costantemente bisognoso di liquidi da recuperarsi mediante l'idrovora fiscale.
Ma dello scempio provocato dagli ex comunisti (complici i cattolici alla Rosy Bindi), non si parla mai. Si preferisce polemizzare sui compensi delle olgettine e sull'elezione di Nicole Minetti nel famoso «listino». Eppure, se non dovessimo sborsare 90 miliardi l'anno per affrontare i maggiori costi delle Regioni, avremmo risolto gran parte dei nostri problemi di cassa. La somma infatti è all'incirca pari a quella degli interessi che il Paese versa sui titoli a breve e lunga scadenza. Questa è la prova provata che le disgrazie italiane dipendono dal pessimo funzionamento degli enti locali e, in particolare, dalla esistenza stessa delle Regioni che richiede iniezioni di denaro in una quantità superiore alle nostre possibilità. Non si capisce perché esse siano state istituite, e ancora meno si capisce perché ci si ostini a mantenerle in vita, visto che non offrono servizi utili ai cittadini, se non quello della sanità. A proposito della quale, però, va ricordato che le vecchie mutue avevano poco da invidiare ai baracconi gestiti dai governatori.
Se rispetto a trent'anni or sono gli ospedali, i medici, le cure eccetera sono di qualità più alta ciò è dovuto al progresso della scienza e non certo all'abilità dei politici, la cui specialità è una sola: eccellere per i soldi che sperperano. Non è neanche il caso di entrare nei particolari: le cronache raccontano ogni dì con buona approssimazione vari episodi che definire disgustosi significa minimizzare.
A questo punto si imporrebbe la chiusura delle regioni, immediata e irrevocabile. Ma siamo consapevoli: è un progetto troppo ambizioso, un sogno che nessun governo e nessun Parlamento nostrani avrebbero il coraggio di realizzare, pur sapendo che si tratterebbe di un toccasana. E allora? Si cerchi almeno di ridurre il numero degli enti in questione (da venti a dieci) riciclando il personale o remunerandolo per grattarsi il ventre, attività per nulla produttiva, ma non dannosa come quella cui si dedicano ora. Se è vero che l'occasione rende l'uomo ladro, sopprimendo la metà delle Regioni, abbatteremmo i furti del cinquanta per cento. Sarebbe già un inizio incoraggiante.
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