Inutile cercare un senso è la brutalità della vita

Inutile cercare un senso è la brutalità della vita

Quando Vittorio Feltri mi ha chiamato dicendomi «Massimiliano, perché da scrittore non scrivi un racconto sul delitto di Avetrana, cercando di entrare nella testa di questi qui?» ero seduto al tavolino di un bar e stavo per strozzare una vecchia e suo genero: gli dava fastidio la presenza di un nigeriano al quale, ogni giorno, compro scorte di calzini che non uso, per cui ho la casa invasa di calzini di Innocence, così si chiama lui, la vecchia e il cognato non lo so.

Ho detto a Vittorio che ci avrei pensato, non sapendo bene cosa pensare, ma intanto, distogliendo il pensiero dalle mie vittime possibili lì davanti a me verso una vittima lontana e reale, e soprattutto verso Sabrina Misseri. Così ho passato un paio di giorni a guardare e riguardare la sua faccia su Youtube, e quella di suo padre, tutte le interviste precedenti al ritrovamento del cadavere che non avevo visto a Chi l'ha visto? e il doppio psicologico su cui ci si interroga sconcertati, da una parte una ragazza che piange addolorata per la scomparsa dell’amata cugina, dall’altra la stessa che l’ha uccisa.

Ho buttato giù diverse ipotesi di racconto, tutte troppo banali, tutte troppo morali, alla fine ho pensato che neppure Dostoevskij avrebbe saputo cosa farne, Sabrina non è Smerdjakov e il padre non è Raskolnikov, almeno Alberto Stasi mi sembrava Joseph K. di Kafka. Cosa avrei potuto scrivere? Immaginare dove possono sconfinare le pulsioni, le gelosie, le complicità, le paure, i desideri non corrisposti, leciti e illeciti? Ma dove può sconfinare il limite del possesso, dove sconfinano la carne, la frustrazione, i rapporti umani?

La verità è che in fondo della storia in sé non me ne frega granché perché qualsiasi cosa è immaginabile. Superato il limite, tutto è possibile, sempre. È la Franzoni che uccide il figlio, è la Franzoni che piange per suo figlio ucciso da lei. È Sabrina Misseri che uccide l’amata cuginetta, è Sabrina Misseri che piange in televisione, e sono vere entrambe quanto è vero il fratello di Sara che al ritrovamento del cadavere corre in televisione anziché correre a casa. Ma la televisione c’entra poco, piuttosto tutto avviene all’interno della famiglia, e questo ci lascia interdetti, perché diamo alla famiglia un significato di ordine, e quello che succede all’interno di una famiglia colpisce, perché è una famiglia, già, ma cos’è la famiglia?

Cos’è una famiglia in Italia, in Africa, in India, in Cina, in Iran? Cos’è oggi, duecento anni fa, duecentomila anni fa, quando non c’era La vita in diretta, cosa c’è nel Dna degli esseri umani? Poco meno di settanta milioni di anni fa eravamo animali simili a topi, sopravvissuti a una delle tante estinzioni di massa, e all’universo non frega niente di tutto questo, e allora come posso entrare nella mente di Sabrina senza sapere nulla della sua vita in particolare, e sapendo troppo della vita in generale? Non so entrare neppure nella mente di uno delle SS, non so neppure se avrei potuto esserlo io se fossi vissuto in Germania, negli anni Trenta, eppure centinaia di migliaia di cittadini tedeschi lo sono stati, e so che la distanza tra un orrore pensato e un orrore attuato è minore di quanto si creda.

Quindi mi interessa scrivere della vita non perché la ami ma perché la vita in generale mi fa schifo quanto l’essere umano, mi interessa la finzione della vita che ci siamo inventati per non vederla, per questo chi guarda l’orrore televisivo resta allibito, perché ha paura, perché vede l’essere umano e non vede mai abbastanza e non gli basta, vuole vedere di più, vogliamo sapere cosa c’era dentro, dietro, senza mai vedere niente. I pensieri sono violenti quanto l’assenza di pensiero, e talvolta il pensiero è la stessa violenza che dobbiamo opporre alla natura e all’istinto per renderli docili, umani, in altri termini contronatura, e proprio mentre, dall’altra parte, ogni giorno elogiamo gli istinti e la bellezza della natura, e i due Misseri sono troppo naturali e troppo poco culturali.

La televisione mostra la vita, la vita si mostra in televisione, si va in televisione per mostrarsi, siamo mostri che guardano mostri e vivono nella mostruosa finzione di vivere in un mondo non mostruoso. Così chiamiamo orco, bestia, animale, l’assassino, per disumanizzarlo, e forse non avremmo potuto essere Goebbels e neppure Michele Misseri e tantomeno Sabrina, ma intanto nella metropolitana di Roma una donna è a terra in coma, colpita da un pugno, e i passanti ci camminano sopra, si chiamano passanti per questo. A Avetrana si va in gita a vedere la casa del mostro, perché si è vista in televisione, è diventata un’attrazione turistica, e anche perché da lì ci si può far vedere in televisione. Su Facebook si sono formati gruppi di pugliesi che dicono il peggio su Sara Scazzi, e chissà, potrebbero essere stupide voci, potrebbe essere possibile, perché non esistono santini neppure tra le vittime, ma è irrilevante.

In fondo Sabrina Misseri, in televisione, era se stessa come sono se stessi i ragazzi nei reality, la mente umana è un calzino vuoto che si può rigirare all’infinito senza che ci sia niente dentro, ma se per esempio rovesci i calzini di Innocence e ci guardi dentro ci sono i suoi due genitori, papà e mamma, sgozzati in Nigeria dalla famiglia del villaggio vicino, di questo stavo parlando con lui quando quei due gli hanno detto di andarsene perché disturbava, perché era negro, e io non li ho ammazzati, mi sono represso. Così si resta sconcertati quando l’addomesticamento si sgretola, quando avviene all’interno di una famiglia italiana, in un piccolo paese pugliese che potrebbe essere il nostro, e allora rifuggiamo dall’idea di un uomo che uccide la nipote di quindici anni e la violenta da morta, di sua figlia complice e carnefice e attrice, e rabbrividiamo perché non hanno un nome ma dei ruoli familiari: padre, nipote, figlia.

Come per la Franzoni, ragioniamo per ruoli e non per verminai umani, non per pulsioni addomesticate o meno, e ogni commentatore, intellettuale, criminologo, giornalista, conduttore televisivo, cerca di ricompattare un senso in quella che Arendt chiamava la banalità del male, ma la brutalità della vita è superiore alla banalità delle opinioni. È come quando in tv capita di vedere un’operazione chirurgica e restiamo inorriditi da ciò che abbiamo dentro, come se quelle viscere aperte esistessero solo lì, sullo schermo, e non le avessimo sotto la pelle. È come quando, al bagno, tiriamo lo sciacquone, in genere senza voltarci a guardare, per non vedere ciò che siamo. È come quando, con la testa rovesciata verso l’alto, guardiamo il cielo stellato senza sapere quale merda siano cento miliardi di galassie, o quando andiamo a ammirare la Cappella Sistina, senza vedere anche lì una patetica messinscena spalmata sull’intonaco per dare un ordine a un mondo terribile dove siamo nati e dove in ogni caso moriremo senza alcuna speranza, senza alcun significato.

È la ragione per cui non ho scritto il mio racconto, non saprei cosa raccontare di così

straordinario senza renderlo orrendamente ordinario, e forse ho deluso Vittorio, ma lui ha salvato la vita a una vecchia e suo genero senza neppure saperlo, e loro neppure lo ringrazieranno, perché la vita, anche qui, è ingrata.

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